Un altro giro - recensione
La vita attraverso una bottiglia di vodka.
Per divertirsi non c'è altro da fare che alterarsi. E come? Con la droga più a portata di mano, legale anzi, pretesto pure per sfoggio di raffinata cultura: l'alcol. Ubriacandosi, insomma.
Infatti è questo il titolo originale del bellissimo film danese di Thomas Vinterberg, Druk, che arriva oggi finalmente nelle sale cinematografiche col titolo di Un altro giro. Già premiato in molto festival, vincitore di Golden Globe e Oscar come miglior film straniero, ignorando purtroppo la splendida interpretazione di Mads Mikkelsen che aveva già lavorato con Vinterberg nel film Il sospetto (nel caso consigliamo un recupero).
Cosa vuol dire essere giovani? Fregarsene di tutto, divertirsi, fare casino. Ubriacarsi, vomitare e ubriacarsi di nuovo, in barba a ogni consiglio, a ogni divieto, prendendo in giro l'autorità, che sia famiglia, scuola o polizia. Così sembra essere nel prologo del film, in cui un gruppo di adolescenti si sfonda di birra e alcolici in nome dello spasso più scomposto.
Poi si cresce e si smette di divertirsi (anche di bere, se non per raffinate sessioni in qualche ristorante chic). E forse si smette di sperare. E conosciamo i quattro protagonisti, uomini adulti, gli insegnati dei suddetti adolescenti, in un liceo nei verdi dintorni di Copenhagen.
I quattro hanno un buon lavoro, belle mogli e figli amati, eleganti case, ma si sono dovuti assoggettare al ruolo di adulti, insegnanti, padri di famiglia, cittadini responsabili, che le trasgressioni non se le possono più permettere. E lentamente sono scivolati nel grigiore, sono depressi, demotivati, spenti e privi di appeal.
Lavorano per necessità senza il fuoco sacro, incrinando i rapporti con gli allievi e a casa la distanza con i propri cari è aumentata sempre più. Martin in particolare (Mads Mikklesen) ha grossi problemi su entrambi i fronti: sembra non esistere più per la famiglia e a scuola i suoi metodi troppo tradizionali sono contestati dagli studenti.
Una sera al ristorante insieme agli amici, Martin ha come un'epifania. I quattro scoprono uno studio che ipotizza che all'uomo per essere felice manchino 0,05 grammi di alcol al giorno, per cui alzando scientificamente il tasso alcolemico del sangue, tutto dovrebbe diventare più bello, più facile e brillante. Si beve di giorno (tanto lo faceva pure Hemingway, e sullo schermo scorrono filmati di noti leader mondiali sbronzi), mai fuori dal lavoro e nei fine settimana.
Rifacendosi a precedenti illustri nell'illusione di non essere alcolisti ma di avere il controllo della situazione, gli amici convengono che l'alcool è la scintilla che illumina le loro vite opache, anche se percepiscono i primi avvisi di rischio. E incrementano la dose a seconda dei diversi soggetti, convinti di trovare la formula perfetta.
All'inizio tutto sembra andare per il meglio: gli amici tengono brillanti lezioni e coinvolgono con vivacità gli studenti, come se l'alcool avesse rimesso in moto un meccanismo inceppato, bloccato dal lavoro e dalle mille incombenze di una vita che nella sua apertura era sembrata tanto diversa.
Un pomeriggio decidono di alzare l'asticella, fare il pieno per vedere l'effetto che fa, ormai guardati con sospetto a scuola, già respinti dalle famiglie. Vanno a fare la spesa strafatti, tutto esplode, tutto può crollare in un attimo ("complimenti per la vita da campione, insulti per l'errore di un rigore"). Le sostanze che provocano alterazioni (droga, alcool) tirano fuori tutto il bene e tutto il male, e ai quattro amici sembrano chiarire le idee perché i soggetti sono culturalmente in grado di decifrare quanto sta loro avvenendo, ma servirà? A qualcuno sì, ad altri chissà.
I protagonisti sono quasi alla pari e tutti descritti con brevi tocchi efficaci (e tutti bravi gli attori); sapremo di più della vita del personaggio di Martin perché è affidato al più noto Mads Mikklesen, che ha un carisma come interprete da mettere in ombra i colleghi.
Oltre a essere un indiscusso manifesto contro una piaga che sta devastando i paesi del Nord (ma certo non solo quelli), il che potrebbe sembrare noioso, Un altro giro è un film bellissimo perché riesce a comunicare anche a non del tutto infelici e a non alcolisti una sensazione di ingiustizia condivisa.
Crescere non deve corrispondere solamente al diventare più vecchi, da qualche parte un motivo ci sarà, ci sarà un risarcimento per la perdita della leggerezza di vivere, per l'accettazione del tramonto di alcuni sogni, senza per questo doversi obnubilare nell'alterazione. E il film sull'euforia disperata di uno splendido Mikkelsen si chiude con un finale dolorosamente aperto ma indimenticabile.
Se avete vent'anni, tutto il tempo del mondo davanti e pensate che per voi andrà tutto diversamente; se siete a metà percorso, di tempo ce n'è meno e guardando indietro non siete del tutto soddisfatti; se siete oltre, il tempo ticchetta e ormai non si può rimediare... guardate questo film.
Basta ricordarsi che si può sempre decidere che musica mettere su, e su di essa inventarsi una danza che sia solo nostra.