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Undercover (Stagione 1) - recensione

Tanto ecstasy, dal Belgio e con amore.

Limburgo, Belgio, plat pays, alberi da frutta, folti boschi e verdi pianure dove pascolano pacifiche mucche da latte.

Ma i maggiori frutti il Belgio li raccoglie in ben altri campi: 2 miliardi di euro l'anno per la produzione di 500 milioni di pasticche di ecstasy, distribuite in tutto il pianeta, dalle Americhe all'Australia (il prodotto nostrano, la mitizzata droga "dell'amore", ha un enorme mercato anche in Sud America, dove viene ripagata in cocaina).

Frutti che si portano dietro inquinamento da rifiuti tossici, sfruttamento dell'immigrazione, periodiche sanguinose rese dei conti fra bande. In Belgio, detto la Colombia europea, si svolge la storia raccontata nella serie televisiva Undercover, distribuita da Netflix, ispirata a fatti reali. Tutta la vicenda ruota attorno a Ferry Bouman (Frank Lemmers), il più grande produttore di ecstasy europeo, e sui due poliziotti che si infiltrano nel suo "cerchio magico", quel gruppo di persone amiche, delle quali anche il più diffidente delinquente non può fare a meno.

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L'uomo ha una corte ristrettissima di complici, quasi tutti parenti e pochissimi collaboratori, che non esita a eliminare alla prima ombra di qualsiasi sospetto. Ferry è uno prudente, che tiene un profilo bassissimo, solo una massiccia villa di lusso borghese, confortevoli SUV per muoversi, e il più bel cottage di un campeggio da piccoli borghesi in trasferta domenicale (del resto, se pensiamo alle catacombe in cui vivono certi grandi ricercati di casa nostra, ci rendiamo conto di quanto si sia mitizzata la figura dei malavitosi, proprio a causa della narrazione di certi film).

Solo ogni tanto si concede una vacanza in un resort di lusso con l'attuale, seconda moglie (Elise Schaap), più giovane, spesso sola e infelice. Per incastrarlo, alla Polizia federale non resta che cercare di infiltrarlo. Entrano così in scena due poliziotti: l'esperto e prudente Bob (Tom Waes), e la giovane Kim (Anna Drijver), assai aggressiva nei suoi approcci, che male si legano con i metodi del partner. Metodi però che sortiscono l'effetto desiderato, facendoli entrare dopo diversi momenti di crisi in stretta intimità e collaborazione con Ferry.

Ma in quel campo non ci sono certezze, bisogna guardarsi ogni attimo da trappole disseminate da sodali invidiosi, dalla naturale diffidenza dell'ambiente, pure dai rischi connessi a lavorare a fianco di una così giovane e bella collega. E, come ciliegina sulla torta, cosa può succedere quando anche la Polizia a sua volta è infiltrata?

Il cattivo e il buono.

Il tono della narrazione è sobrio, realistico, senza concessioni al glamour o allo spettacolare; la violenza (che ha fatto vietare la serie ai minori di 14 anni) è inferiore a quella vista in molti altri prodotti di genere (non siamo in Messico). E la figura del boss non è fascinosa e seduttiva: è un tizio qualunque con la pancia, vestito come un camionista tedesco, grigliate al campeggio e birra con i soci in qualche baracca di legno fra i boschi. Per il resto, duro lavoro di organizzazione della banda, perché organizzare è tutto.

E perenne diffidenza nei confronti di chiunque, mentre cerca di conservare, proteggere il suo nucleo famigliare. Quella famiglia che invece l'infiltrato (Bob) è costretto a danneggiare con le sue continue assenze, con il pensiero costante della missione, mettendo a rischio l'unione.

Sono infatti poliziotti addestrati a un mestiere durissimo, che spesso fa deragliare dalle proprie vite civili, rendendo difficile tornare ogni volta indietro. Purtroppo il whistleblower, o snitch o rat, quello che spiffera, lo spione, il traditore, l'infiltrato, l'informatore, è sempre stato un elemento di importanza fondamentale per risolvere delitti, per arrestare colpevoli, per sconfiggere organizzazioni criminali. Costretto spesso a rientrare poi in programmi di protezione, eppure ciò nonostante spesso vittime di terribili ritorsioni.

Una bella coppia di falsi.

Questi problemi li hanno bene ricordati di recente due altre serie tv, la splendida The Informer di Amazon Prime (ancora inedita in Italia, però), e la più commerciale Tin Star, con un esagerato ma godibile Tim Roth. Di questa figura il cinema è innamorato, senza citare i due infiltrati più improbabili (eppure mitici) di Miami Vice.

Pensiamo anche a The Departed, Donnie Brasco, Point Break, dove troviamo un ottimo esempio del legame che si può instaurare fra preda e cacciatore, una fascinazione che fa sì che, al momento di portare a casa i risultati del lavoro, quasi dispiaccia, perché il sentimento falso che si è costruito così faticosamente, contiene però qualche traccia di un rapporto vero, che fa sentire in colpa per l'inganno.

Nella serie Undercover, come dicevamo, il tono è di piatto realismo, e questo spegne un poco la figura del boss, perché il grande trafficante di droga è senza dubbio una delle figure più mitizzate nell'immaginario collettivo. Come i grandi gangster spesso è tratteggiato come un easy rider della società, un battitore libero e felice, una vita di eccessi che il rischio insito nel mestiere rende ancora più succulenti, nel motto che è meglio ardere che spegnersi lentamente, meglio un giorno da pecore che ecc ecc.

Relazioni pericolose...

Sicuramente è uno larger than life, come abbiamo visto in film come Blow, Mr. Nice, Barry Seal, Bobby Z, Le belve. Mentre in questa narrazione siamo lontanissimi da tali rappresentazioni e non si fa fatica a parteggiare per i poliziotti. Mentre il discorso potrebbe essere ben più ambiguo.

La serie è composta da 10 episodi, che riescono a coinvolgere in una situazione adeguatamente ansiogena, sempre esposta freddamente. Il cast è di facce normali, attori a noi poco noti. L'unico volto conosciuto è quella di Kevin Janssens (Le Ardenne, Revenge), attore specializzato in personaggi brutali, che qui fa lo scagnozzo violento e decerebrato. Scritta da Nico Moolenaar, con la regia divisa fra Eshref Reybrouck (Cordon) and Frank Devos (Chaussée D'amour), Undercover ha ricevuto un premio come miglior serie al Cinequest Film Festival di San Jose, California, stato che di spaccio se ne intende.

La serie è recitata in Fiammingo, con qualche battuta in Francese e Inglese e pure in Italiano (si parla anche di un club di Milano, il Tunnel, come "piazza" ideale; chissà se saranno contenti). Ascoltarla in originale con i sottotitoli può quindi sembrare una scelta di puro masochismo, ma noi personalmente siamo sempre favorevoli all'ascolto delle recitazioni originali, sempre più vere del doppiaggio.

Una riunione di lavoro.

Ricordiamo anche due altre interessanti serie sulla lotta fra spacciatori e poliziotti, entrambe tedesche: 4 Blocks (Amazon Prime) e Dogs of Berlin (Netflix), pure esse prive di ogni enfasi romanzesca. Alla fine del mese, sempre sulla grande N rossa, partirà la serie Come vendere droga online (in fretta), anch'essa tratta da un'originale storia vera.

Quando pensiamo ai costi in vite e denaro di questa lotta, impressiona pensare a quanto sia vana. Perché ci sarà sempre chi vende, se c'è chi compera: è una delle tristi leggi del mercato.