La formula vincente che non funziona - editoriale
Manca la voglia di osare ma i videogiochi per vincere facile non vincono.
L'impennata che ha investito il medium dei videogiochi a partire dalla settima generazione di console è andata di pari passo con una profonda mutazione delle discussioni nascoste dietro i pitch, i concept, insomma, dietro la filosofia che fissa gli assiomi alla base dello scheletro di un'opera.
La crescita economica e il successo globale raggiunti da alcune grandi produzioni evento hanno dimostrato al mondo intero che percorrere determinate strade significa generare numeri e raccogliere ricavi prima considerati alieni al settore, se non appannaggio di pochissimi publisher eletti.
Solo nell'ultima decade, Grand Theft Auto Online è diventato il prodotto d'intrattenimento (sì, compresi cinema, serie tv e musica) più redditizio di tutti i tempi. Fortnite ha sfondato il muro dei 200 milioni di giocatori, trasformando Epic Games in una mega-corporazione capace di eclissare i bilanci di numerosi stati. League of Legends ha completamente conquistato il mercato asiatico e ha creato un sottobosco esport in grado di annichilire le metriche di alcuni sport tradizionali.
Ma è da ben prima dell'esordio di questi grandi fenomeni che la marea dei produttori di videogiochi si muove nella direzione della cosiddetta "next big thing", cercando costantemente una scuola creativa capace di partorire successi annunciati e raccogliere fette gigantesche del pubblico di massa all'interno dei confini di un singolo prodotto.
Si tratta di un procedimento naturale e sotto gli occhi di tutti: ai tempi dell'esplosione di Call of Duty, sul finire degli anni 2000, gli sparatutto in prima persona spuntavano come funghi nel tentativo d'inseguire la formula più venduta del mondo. Lo stesso è accaduto nell'età dell'oro dei titoli open-world, che ha portato la maggior parte delle saghe, persino quelle storiche, ad abbracciare questo genere di ricetta per coinvolgere frazioni sempre maggiori di appassionati.
Sono meccanismi inevitabili, cose che accadono ancora quotidianamente, dal momento che al proliferare del genere battle royale tutti i principali attori del mercato sono corsi a dotarsi di modalità equivalenti, che la maturazione dei giochi come servizi ha spinto tutti i principali publisher ad abbracciare la formula in una certa misura, e che ancora oggi sono tonnellate le opere che virano in direzione di caratteristiche come il mondo aperto per cavalcare la corrente dominante.
La grande differenza rispetto al passato è che la filosofia dell'emulazione ha iniziato ad incontrare i primi limiti incarnati dalla risposta negativa da parte del pubblico, delineando una situazione che nell'ultimo biennio ha caratterizzato diverse release importanti: la formula vincente non funziona più e i videogiochi che fondano la propria esistenza sulla necessità di rispondere a una domanda precisa del pubblico non stanno riuscendo a raccogliere i risultati sperati.
Prendiamo l'esempio di Anthem, un titolo che calza a pennello non solo perché rappresenta l'attacco di Electronic Arts al sottobosco dei giochi come servizi, ma soprattutto perché è stato sviluppato da BioWare, una software-house aliena a questo genere di opere che in un certo senso si è trovata costretta a cimentarsi nel campo, snaturando completamente la sua classica visione creativa.
Anthem è evidentemente nato dall'idea di competere per il "controllo" dell'immensa utenza che negli anni precedenti è stata contesa fra prodotti come Destiny e The Division, andando all-in sulla filosofia del mondo persistente e sulla creazione di loop di gioco destinati a trattenere gli utenti nell'universo condiviso il più a lungo possibile.
Il problema non risiede nel fatto che Anthem abbia tentato di raggiungere questo obiettivo, ma che sia nato esclusivamente al fine di perseguirlo. Le indiscrezioni emerse a seguito della pubblicazione suggeriscono che BioWare avesse in mente ben altro quando iniziò a lavorare sul progetto, ma alla prova dei fatti ci siamo trovati di fronte a un titolo che trovava la sua anima solamente nella volontà di costruire un nuovo game-as-service per lottare con i grandi del mercato.
Ovviamente ciò non esclude che determinati sviluppatori scelgano strade simili per trasmettere ai giocatori una filosofia personale e ragionata, ma anche questi rischiano d'inciampare e incastrarsi nello stesso calderone. È quello che è successo a Outriders di People Can Fly, che nonostante l'ispirazione originale è una discreta dose di successo su Game Pass, si trova ora ad inseguire al netto dell'ultima grossa patch risolutiva. La situazione stagnante è comune a quasi tutti gli emuli di Destiny, titoli che al primo cambio di trend si sono trovati orfani di una grossa fetta delle basi installate.
Legare la produzione a doppio filo con l'andamento del mercato è un'operazione oltremodo rischiosa, e ormai abbiamo dozzine di esempi a supporto di questa tesi. Abbiamo parlato dei giochi come servizi, ma lo stesso identico quadro si è manifestato nell'orbita dei titoli "hero based": lo straordinario successo di un'opera seminale come Overwatch ha dato vita a un enorme sottobosco di prodotti che hanno incontrato alcuni fra i peggiori fallimenti degli ultimi anni, come Bleeding Edge di Ninja Theory o Lawbreakers di Cliff Blezinski, entrambi chiusi nel giro di pochi mesi.
Potremmo fare l'esempio dei battle royale, potremmo proseguire trattando i card game, potremmo parlare di dozzine di altre derive ma, attenzione, ricordando sempre e comunque che esistono generi - come i metroidvania - che attraverso l'emulazione hanno toccato vette altissime. Il problema però non sta investendo solamente nicchie specializzate del mercato, andando invece ad impattare l'intera dimensione macroscopica dei progetti di prima fascia.
Solo i grandi FPS che hanno chiuso il 2021 sono figli di un filone di successi che ha caratterizzato gli ultimi 15 anni, recentemente sfociato negli ultimi episodi di Call of Duty e Battlefield. Formule oltremodo rodate, per loro stessa natura vincenti, che tuttavia quest'anno hanno registrato fra i peggiori risultati nella storia dei rispettivi brand. Call of Duty: Vanguard, nello specifico, ha vissuto un calo di oltre il 40% rispetto agli episodi precedenti, mentre l'andamento altalenante di Battlefield sembrerebbe aver convinto il publisher, stando alle ultime voci, a mettere in pausa la serie di Star Wars Battlefront.
Se l'affaticamento di questo genere di produzioni si riversa direttamente nei numeri delle vendite, ce ne sono altre che stanno ricevendo una risposta più vocale che economica. Un caso lampante è quello della filosofia open-world che tanto ha avuto successo con l'avvento del primo Assassin's Creed, toccando nuove vette con l'arrivo di Skyrim e proseguendo la sua ascesa attraverso The Witcher 3. Oggi, i progetti figli del mondo aperto sono oggetto di un procedimento di accettazione selettivo che non sembra risparmiare nessuno: o si tramutano in straordinari successi, oppure vengono ricordati come tremendi fallimenti.
Il risultato è che ci sono dozzine di opere che hanno adottato la formula open-world per adeguarsi alla corrente dominante, in certi casi ci sono studi interi che si sono evidentemente specializzati in quest'ambito, producendo una straordinaria mole di opere sulla carta "vincenti" che non sono riuscite ad imporsi, impelagandosi fra lo spettro del "more of the same" e quello della pigrizia. Esempi recenti sono quelli di Watch Dogs Legion, che ha venduto il 50% di copie in meno rispetto al capitolo precedente, e Ghost Recon: Breakpoint, che è stato criticato dallo stesso presidente di Ubisoft Yves Guillemot durante la call con gli investitori immediatamente successiva al lancio.
Un caso eclatante è senza dubbio quello di Cyberpunk 2077, che al di là dello scivolone della release cross-gen ha raccolto moltissime critiche relative alla validità e alla qualità dei contenuti collaterali offerti da Night City. Una situazione di rigetto che non ha investito solamente i mondi aperti, colpendo anche gran parte di quelle che vengono definite le "operazioni nostalgia" messe in piedi da remake e edizioni remastered, sulla carta progetti a basso costo ed elevato rendimento che per mezzo di release come la GTA Trilogy o Warcraft 3: Reforged si sono trovate a deludere le aspettative di orde di appassionati.
Appassionati che, specialmente nel corso dell'ultimo biennio, hanno iniziato a rispondere alla cultura dell'hype con reazioni uguali e contrarie, elevando alla potenza le situazioni di review bombing ed esprimendo vocalmente tutto il dissenso che segue la delusione dell'aspettativa. Da una parte ci sono dunque publisher che comunicano videogiochi "vincenti" come se incarnassero tutto ciò che l'utenza possa desiderare, mentre dall'altra risposte piccate da parte di un'utenza sfiduciata che spesso mira ad affossare il progetto incriminato, proprio come accaduto al sopracitato Cyberpunk 2077. Sì, magari il singolo prodotto finisce per incassare milioni, ma è la società intera a perdere di valore.
Il mancato kolossal di CD Projekt, tuttavia, non rappresenta l'esempio giusto per scavare le radici della problematica, perché questo genere di opere disfunzionali nascono quando in fase di creazione il "dovere" supera il "volere". Quando gli studi si trovano costretti da logiche di mercato ad adottare la formula open-world, quando il concept di una produzione viene stravolto interamente al solo fine di penetrare il settore dei "live game", quando l'originalità e l'autorialità vengono messe da parte in favore di un trend. Insomma, quando i creativi siedono allo stesso tavolo degli investitori non per ricamare semplici sistemi di monetizzazione collaterale, ma per gettare le stesse fondamenta su cui si reggerà l'intero videogioco.
Una conseguenza ulteriore di questa dinamica risiede nella crescente diffidenza destinata ad accompagnare alcune release ambiziose, come ad esempio quelle di Halo Infinite e Elden Ring, due opere che si apprestano a modificare radicalmente le formule cui l'utenza è abituata. Halo sarà open-world solamente per moda? Elden Ring ha scelto il mondo aperto per cavalcare i successi di altri RPG? Per quanto abbiamo potuto vedere si tratta di casi strettamente legati a scelte autoriali e ragionevoli, ma è inevitabile che una fetta del pubblico, rimasta scottata, si ponga domande di questo genere.
Là fuori, da qualche parte, c'è la prossima formula videoludica vincente, qualcosa che non è ancora stato scoperto e che viene ignorato in favore del perseguimento di produzioni che appaiono meno rischiose solamente sulla carta, perché alla prova dei fatti stanno raccogliendo risultati sempre meno incoraggianti.
Gli unici a navigare in acque sicure sono quegli autori che hanno costruito formule uniche e inimitabili, capaci di tornare di volta in volta senza modifiche sostanziali perché nel frattempo nessun reale competitor si è affacciato sul mercato, una qualità che in questo momento storico si può attribuire esclusivamente a FromSoftware, a Rockstar Games e probabilmente agli studi first party di Nintendo. Per tutti gli altri publisher ogni produzione è una roulette russa, perché al rischio economico legato all'innovazione si è aggiunto quello di realizzare proprio le opere conservative che hanno iniziato a non funzionare più.
Insomma, la classica scusa che vuole l'innovazione e la ricerca nell'ambito dei videogiochi AAA segregate dietro un insostenibile rischio di natura finanziaria sembra ormai iniziare a traballare, dato che l'investimento su progetti solidi e rodati si sta dimostrando altrettanto pericoloso. Il 2022, in questo senso, sarà un anno decisivo, ed è evidente che qualcosa debba cambiare sin dalla stesura dei primi brainstorming.
Gira voce che la serie di Call of Duty abbandonerà il classico ciclo di pubblicazione annuale proprio come Assassin's Creed fece nell'ottica del rilancio di Origins. Ma siamo certi che simili gesti estemporanei bastino per ribaltare la nuova corrente del mercato? Con diverse opere innovative all'orizzonte e una discreta dose di IP inedite in arrivo, dovremo aspettare ancora un altro anno per scoprire quale filosofia creativa avrà la meglio.
Scelta autoriale o formula rodata? Se la prima è da sempre il grande spauracchio delle software-house più dispendiose, la seconda ha lentamente ma inesorabilmente iniziato a erodere il mercato AAA.