Army Corps of Hell - review
Square Enix sbaglia l'esordio su Vita.
Nell'eccitazione di una line-up di lancio che, come quella di PlayStation Vita, può contare su titoli blasonati e già affermati agli occhi del pubblico, Army Corps of Hell è l'unico vero e proprio "rischio" su cui abbiamo avuto modo di soffermarci. Rischio per il publisher, Square Enix, che ha preferito puntare su una nuova IP piuttosto che sul successo sicuro, e per l'acquirente, attratto magari dalle sfavillanti immagini pubblicitarie ma privo di riferimenti affidabili.
Spazziamo subito via ogni dubbio, allora: Army Corps of Hell è sfortunatamente una produzione al di sotto della sufficienza, che scommette tutto su uno o due punti di forza e limita al minimo ogni sforzo su elementi "coreografici" e presumibilmente superflui.
Dando un'occhiata alle preview sparse per la rete, non potrete fare a meno di notare gli accostamenti a Pikmin e Overlord, a cui in questa sede aggiungeremmo tutt'altro che casualmente un pizzico di Dissidia: Final Fantasy. E non in un'accezione positiva...
Se del capolavoro Nintendo, rilasciato nel lontano 2001 per GameCube, la produzione di Square Enix trae il controllo di decine e decine di goblin, da lanciare come meglio si crede contro l'avversario di turno, e mutua da Dissidia la chiusura a camere stagne dei livelli e l'azione frenetica, Overlord ha ispirato il character design improntato su personaggi e temi più o meno ironici.
Ne consegue che un titolo del genere, orientato com'è verso l'hack 'n' slash e con una colonna sonora heavy metal indicativa del suo ritmo, non può ambire ad avere l'ampiezza della serie Pikmin: niente missioni secondarie, niente scelte da prendere durante la sessione vera e propria, niente presupposti narrativi ad arricchire un contesto ludicamente povero.
Il protagonista, un oscuro Re imprigionato nel mondo degli inferi, mette a suo completo servizio una popolazione di pacifici goblin. Il risultato è una lotta senza tregua alle altre forze del male, in una sorta di guerra per lo scettro di più malvagio inframezzata da cut-scene dallo stile grafico affascinante, sì, ma ripetitive se non quando si tratta di svelare nuovi poteri.
"La vera forza dei soldati sta nel combinarsi in decine e abbattere a suon di QTE persino i nemici più grossi, eccezion fatta per i boss."
I goblin, il cui numero a nostra disposizione crescerà gradualmente fino al centinaio, si dividono in tre classi: soldati, lancieri e maghi. Ci siamo ritrovati a usare principalmente i soldati, dal momento che i lancieri, pur capaci di procurare più danni in solitaria, si prestano pochissimo al fondamentale gioco di squadra e i maghi tornano utili "solo" per gli attacchi dalla distanza. La vera forza dei soldati, quindi, sta nel combinarsi in decine e abbattere a suon di QTE persino i nemici più grossi, eccezion fatta per i (pochi) boss dell'avventura.
Si tratta, tuttavia, di una forza che rappresenta una lama a doppio taglio. Non ricorrere alle altre due categorie di personaggi significa ridurre le soluzioni del gameplay, semplificarlo fino alla monotonia. Alla piattezza del game design, poco ispirato nell'aspetto visivo e privo di sostanza nell'esplorazione, che si limita al saccheggio dei cadaveri, si somma dunque la noia di dover proseguire per inerzia sugli stessi fondamentali appresi nella prima parte del gioco.
A questi difetti Army Corpse of Hell non riesce a sottrarre neppure la discreta componente della personalizzazione. Prima di ogni stage, infatti, è possibile adeguare il numero dei nostri goblin a seconda delle esigenze, ritoccare il loro equipaggiamento, cioè arma e scudo, e quello del protagonista, in base però a parametri puramente estetici come il mantello.
Salvo rare eccezioni, gli oggetti da affidare ai personaggi vanno creati con l'utilizzo dell'alchimia, che richiede a sua volta un tot di ingredienti reperibili sul campo: con le viscere o magari gli occhi dei nostri nemici, possiamo metter su un arsenale fatto di strane chitarre e chiassosi tamburi, che sostituiscono, non senza una punta di originalità, le più classiche pozioni e armi bianche.
La loro originalità si ripercuote in particolar modo sulle funzionalità specifiche di PlayStation Vita: se toccato in maniera omogenea, ove richiesto da un livello di difficoltà tutt'altro che punitivo, il touch pad è in grado di resuscitare il Signore del male o di scatenare i suoi poteri speciali.
Non nascondiamo che almeno per i primi tempi sarà necessario un certo lavoro di coordinazione, ma superata la consueta fase di apprendistato rimane l'amaro in bocca per il suo mancato utilizzo in tecniche più "invasive" all'interno delle meccaniche principali.
"Le ambientazioni si ripetono in maniera ciclica e monocorde sulla stessa, identica struttura e composizione visiva"
Altro sintomo dell'inadeguatezza rispetto a una piattaforma che avrebbe meritato un lavoro più convinto è il comparto grafico. Nulla di particolarmente sgradevole, eppure nulla che avrebbe fatto gridare al miracolo su PSP. Se da un lato le texture del terreno e gli effetti scaturiti da magie e uccisioni spiccano per la loro brillantezza, il resto è un vuoto inspiegabile persino per un titolo handheld.
Le ambientazioni si ripetono in maniera ciclica e monocorde sulla stessa struttura, circondate da un vuoto che, almeno nelle intenzioni, starebbe a rappresentare il setting infernale.
In ugual misura, i nemici, suddivisi in appena una decina di varianti, si ripetono a profusione fino all'arrivo di una boss fight. Peccato che queste, le uniche a salvarsi sotto l'aspetto dell'intelligenza artificiale e della benché minima creatività, siano molto lontane le une dalle altre.
E, a meno che i vostri amici non abbiano deciso di accompagnarvi in quest'avventura, non parlate di multiplayer: a disposizione del giocatore, infatti, c'è la sola rete ad hoc, tramite la quale condividere i livelli della campagna principale con un massimo di quattro utenti.
Recuperando il nostro incipit, in conclusione, Army Corps of Hell è un rischio per chiunque voglia uscire dal seminato della lunga lista di titoli di lancio della PS Vita. Questo gioco va infatti salutato, più che come una benvenuta nuova proprietà intellettuale, come un discreto mix di tradizioni e di culture differenti, che purtroppo non si basa su uno sviluppo solido e approfondito.
Con uno sforzo tecnico maggiore e forse con un'altra consapevolezza dell'hardware su cui si stava lavorando, avremmo potuto trovarci tra le mani un sequel interessante.