Videogiochi, buchi neri e fantasia
Elite: Dangerous, o quando gli scatti dei buchi neri della NASA prendono vita.
Quello dell'immensità dell'universo è uno fra i pensieri più soverchianti che possano attraversare il nostro fragile intelletto. Il senso del vuoto, le schiaccianti proporzioni cosmiche e l'incredibile pericolosità delle stelle, portatrici di vita e al tempo stesso forze inarrestabili, esercitano tuttavia un fascino magnetico che, fin dagli albori della civiltà, ha continuato a riversarsi in tutti i prodotti dell'ingegno.
All'aumentare della nostra comprensione è seguita una crescita del senso di angoscia, il terrore che si prova alla realizzazione della nostra microscopica dimensione, portato sul grande schermo dai maestri della fotografia e tradotto nell'inchiostro dai grandi autori della fantascienza.
Così, con la nascita del nostro medium, abbiamo visto navette, alieni e asteroidi alternarsi lungo i fianchi delle macchine coin-operated e sugli schermi delle prime home console, ma fu nel 1984 che il vuoto siderale riuscì a ritagliarsi uno spazio particolare in mezzo al vortice di pixel.
Quell'anno fu pubblicato Elite, un titolo che nascondeva l'intera galassia oltre le linee geometriche disegnate su sfondo nero, un'opera che dava una piccola spintarella all'immaginario dei giocatori, trasformandosi in qualcosa di incredibile per coloro che ne avessero accettato gli assiomi.
Ricordo come fosse ieri il primo impatto con Elite: Dangerous, l'evoluzione del "simulatore spaziale" secondo Frontier Development. La console degli strumenti era indecifrabile, zeppa di schermi olografici costellati di criptiche unità di misura. Ricordo il terrore provato durante i primi atterraggi, momenti in cui la carlinga finiva spesso e volentieri grattugiata lungo la stazione orbitale di turno, così come i primi salti iperluce, e lo sgomento che seguiva l'apparizione dei corpi celesti.
Ricordo l'istante in cui mi resi conto che non c'era un sopra e non c'era un sotto, così come quello in cui realizzai che la barretta in basso a destra era l'indicatore del carburante, e quando arrivava a zero si era condannati a vagare alla deriva, soli e senza speranza.
Quei giorni, ormai, sono passati: qualche tempo fa sono state pubblicate le prime fotografie mai scattate ad un buco nero e devo ammettere che, per un giocatore di Elite, non è stata una grande novità. Già, perché di buchi neri, a bordo delle nostre Anaconda targate Faulcon deLacy, ne abbiamo visti centinaia nel corso degli ultimi cinque anni.
Abbiamo visto giovani stelle al neutrone agitarsi nella massa di polveri al centro della nebulosa Testa della Strega, abbiamo visto la stazione spaziale di Colonia viaggiare a 27.000 anni luce dal sistema solare, abbiamo visto le armi biologiche Thargoidi ridurre in cenere gli incrociatori umani e abbiamo affiancato le nostre navette a Canis Maioris, la gigante rossa che fa sembrare il nostro Sole una biglia da spiaggia. Prima di partire per questo viaggio, però, eravamo pesci rossi in un piccolo stagno, spaventati a morte dall'oscurità dell'infinito e inadatti ai lunghi silenzi interstellari.
Elite: Dangerous è ben lontano dall'essere un videogioco perfetto, ancor più dall'essere un titolo accessibile: è complesso, confusionario, manca di focus e ha una curva di apprendimento che ricorda molto da vicino una scalata del K2. È il classico prodotto che non solo si rifiuta di stringere la mano del giocatore, ma addirittura la stritola per poi gettarlo in un oceano pieno di squali.
Quell'oceano, poi, non è una piatta e rassicurante superficie acquatica, bensì una galassia virtuale che riproduce in scala uno a uno tutti i corpi celesti della nostra Via Lattea. Un universo sconfinato abitato da pirati della peggior specie, razze aliene ostili, trafficanti d'armi e signori della guerra, da giocatori che non vedono l'ora di aggiungere una nuova tacca al proprio contatore delle prede e da fazioni disposte a tutto pur di assumere il potere politico.
E noi? Beh, noi siamo noi. Elite fa parte di quella famiglia di videogames che spostano sulla schiena del giocatore tutto il peso della determinazione della propria avventura: ci sguinzaglia tra stelle e nebulose senza fornire il benché minimo input, senza porre una destinazione finale oltre la coltre di polveri cosmiche. In compenso, non si fa scrupolo nel posizionare lungo il cammino una serie di ostacoli apparentemente insormontabili.
Il primo si chiama Sidewinder ed è il rottame più diffuso tra le colonie della "bolla", la navetta che accompagna tutti quei giocatori alle prime armi che, già scoraggiati dall'incomprensibile pannello di controllo, si trovano per le mani una scatola di lamiere attaccata ad un propulsore.
E così, ogni aspirante pilota nasce con l'imprinting di dover cambiare al più presto mezzo di trasporto, il che, sostanzialmente, diventa il motore principale dell'avventura: bisogna costantemente guadagnare crediti, indispensabili per procurarsi un vascello all'ultimo grido, che poi è l'unico modo per vivere appieno il mondo di gioco. O almeno così si è portati a credere.
In molti associano Elite ad un immenso grind senza fine volto ad ottenere le armi più potenti, le componenti più avanzate e le navi da guerra più temibili. Ma quando si arriva a possedere una Federal Corvette, un Imperial Cutter o una semplice ed elegante Anaconda, non si prova null'altro se non una sensazione di vuoto profondo, realizzando che non era quello il modo migliore di vivere l'esperienza.
Ed è allora che si apre uno squarcio nel velo e ci si rende conto di essere al cospetto di qualcosa di unico. Parlavamo di buchi neri: il primo che visitammo era Maia B, nel sistema di Maia per l'appunto, poco distante dalla nebulosa delle Pleiadi. Il primo viaggio da 400 anni luce non si scorda mai: un salto iperspaziale dopo l'altro ci si imbatte in nane marroni, stelle al neutrone, giganti rosse e accoglienti nane gialle, allontanandosi sempre più dai familiari nomi latini dei corpi celesti adiacenti a Sol.
Le colonie minerarie cedono lentamente il passo a piccole lune completamente disabitate e sistemi stellari pericolosamente vicini allo spazio Thargoide, quel quadrante della galassia invaso dalle misteriose creature extraterrestri. Un viaggio a velocità sub-luce tra due stelle parte dello stesso gruppo solitamente richiede tempo, da pochi minuti a qualche ora, e non è mai facile comprendere quanto ci si trovi vicini ad un buco nero.
La lente gravitazionale riflette uno spicchio d'infinito, e la totale assenza di luce rende complicata l'individuazione della cosiddetta 'zona di esclusione': basta un passo falso e ci si ritrova imprigionati nel campo gravitazionale della singolarità, talmente potente da surriscaldare i circuiti in un battito di ciglia. Niente panico però: basta inquadrare il vettore di fuga e compiere un salto in 'supercruise' per sfuggire agilmente al terribile risucchio.
Un panorama mozzafiato che è solamente una briciola del gigantesco mondo di gioco, un turbine di stelle gemelle, giganti gassosi circondati da centinaia di anelli ghiacciati, nane bianche e suggestivi tramonti binari. Tra un salto e l'altro può capitare di sbagliare qualche calcolo e restare senza carburante; proprio per questo motivo, un gruppo di giocatori ha dato vita ai Fuel Rats, specialisti del soccorso che, tramite un canale IRC, s'impegnano in gratuite operazioni di salvataggio per le navicelle alla deriva.
E in molti, compreso chi sta scrivendo queste parole, rischiavano di perdere la magnificenza di questo mondo per colpa di qualche sciocco preconcetto legato al sandbox moderno.
In quanti hanno criticato opere come Elite e Sea of Thieves (il sottoscritto in testa) perché prive di un focus sul lungo periodo, di un appiglio che esulasse dal semplice piacere ludico e dall'apporto della fantasia? Forse siamo troppo abituati ad avere il nostro immaginario preso per mano e condotto in sicurezza nei confini prestabiliti dai designer, ormai dimentichi di quelle generazioni embrionali che non avevano alcun valore se private dei nostri sogni infantili e di un setting evocativo.
Il videogioco è, o per lo meno era, anche questo: bambini all'aria aperta che sognano di combattere nelle terre di Hyrule, che fingono di destreggiarsi all'interno dei livelli di Mario Bros, che imbracciano bastoni come fossero spade per sconfiggere mostri immaginari. È forse troppo chiedere agli appassionati più maturi di muovere ancora qualche passo sulle sponde dell'Isola che non c'è, restando comodamente di fronte ad uno schermo?
Forse sì: i tempi di gioco dell'utente medio si sono ridotti a dismisura, ed il mercato ha toccato con mano il trionfo della micro-esperienza, la vittoria totale delle rapide partite multigiocatore quali piccole e costanti iniezioni di adrenalina. Ogni tanto, tuttavia, vale la pena voltarsi e controllare cosa si è lasciato indietro, ragionando sullo stesso concetto di "gioco" e sull'evoluzione del nostro spirito critico.
Potrebbe capitare, lungo il sentiero, di scoprire qualcosa di incredibile, che sia l'avventura di un vascello pirata o l'immensità della galassia, una misteriosa magia capace di farci riscoprire la potenza dell'immaginario. Una magia che, a volte, arriva ad alzare il sipario sugli attimi di una vita mai vissuta.