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Dear Esther - review

Nessun videogioco è un'isola…

Ci sono momenti della carriera di un redattore dove il compito diventa davvero arduo: quando si tratta infatti di analizzare un videogioco che a conti fatti rischia di non poter neanche essere definito tale, è difficile trovare i parametri o le parole per suggerirne o meno l'acquisto.

Ancora più difficile è probabilmente riuscire a trovare un'oggettività all'interno di quello che può essere definito come un viaggio sensoriale, un'esperienza da cui chiunque avrà la fortuna di incrociarne il destino porterà a casa qualcosa di diverso, perso fra i suoi ricordi e le sue sensazioni.

Il vecchio faro, da dove tutto ha inizio…

Questi e altri pensieri dello stesso tenore si sono susseguiti lungo la mia onirica esperienza con Dear Esther, opera di un gruppo di visionari che risponde al nome di TheChineseRoom, nonché gioco che rappresenta un deciso punto di rottura con tutto quello con cui avete avuto a che fare finora.

Intendiamoci, molti lo bolleranno come banale, altri lo definiranno insignificante e altri addirittura negheranno, come premesso, la sua stessa essenza videoludica; ma laddove l'interazione si sposa con la volontà di raccontare una storia, credo che quel qualcosa che ne fuoriesce abbia tutto il diritto di entrare all'interno del nostro canone ludico.

Spiegarvi però cos'è Dear Esther è allo stesso tempo tanto semplice quanto complicato e quindi perdonatemi se per un attimo ricorrerò ai vecchi punti di riferimento. In sintesi, persi su un'isola sconosciuta, dovrete percorrere (letteralmente) i quattro capitoli di cui è composto il gioco semplicemente spostandovi là dove il vostro istinto vi porterà, seguendo i pensieri che correranno veloci come la brezza marina.

Sì, tutto qui. Non c'è nessuna barra della vita né bersagli da colpire: percorrendo le spiagge, scalando le colline o esplorando i relitti accarezzati dalle onde verrete solo di tanto in tanto travolti da un flusso di coscienza del protagonista, perso fra le mille storie che si affacciano nella sua mente.

Alcuni paesaggi rimarranno impressi nella vostra anima.

"Storie che intrecciano un racconto d'amore, un destino forse beffardo o la vita di un terzo individuo non presente fisicamente sull'isola..."

Storie che intrecciano un racconto d'amore, un destino forse beffardo o la vita di un terzo individuo non presente fisicamente sull'isola, in un susseguirsi di parole e toccanti passaggi dove vi troverete addirittura a chiedervi se l'isola sia reale, chi siete davvero voi e soprattutto perché siete lì.

È ovvio tuttavia che per immergervi completamente in questo mondo non sarebbe stata sufficiente qualche frase languida sparsa qua e là o qualche oggetto particolare da osservare, e così gli sviluppatori hanno deciso di dare una nuova definizione di realismo videoludico, ricreando un'isola che, pur nel suo essere deserta, appare più viva di molti altri mondi in cui il nostro alter ego di turno abbia mai dovuto imbattersi.

Ogni angolo, ogni filo d'erba, ogni roccia sembra parlare di una storia diversa, diventando un piccolo tassello di un mosaico che continua a sfuggire ogni qualvolta che ci sembra di avvicinarci alla sua soluzione, rendendo reale quello che visibilmente reale non è e togliendo volutamente ogni punto di riferimento dal nostro percorso.

E la vista non sarà l'unico vostro senso a beneficiare di questa atmosfera quasi magica: il comparto sonoro, infatti, concorre a creare quella che è sicuramente una delle maggiori esperienze sensoriali mai uscite sotto il nome videogame, con un susseguirsi di musiche toccanti, dal rumore del vento che spazza via le colline dell'isola per arrivare alla voce spezzata del protagonista.

E alla fine uscimmo a rivedere le stelle…

Seppur nei limiti di un'interattività più psicologica che fisica, Dear Esther traccia così la strada per un modo di comunicare tramite la sfera videoludica che raramente mi è capito di incontrare e che mostra forse solo oggi, per la prima volta, le potenzialità che un tale approccio porta in grembo.

"Il vero cruccio di questa esperienza è così solo la sua durata"

Il vero cruccio di questa esperienza è così solo la sua durata: nonostante sia facile perdersi per i fantastici paesaggi o per le grotte ricche di misteri dell'isola, difficilmente infatti anche il giocatore più riflessivo impiegherà oltre un paio d'ore per portare a termine la propria avventura. E poco aiuta il fatto che una volta giunti al termine probabilmente riprenderete il vostro incedere per scoprire anfratti o angoli di memoria perduti al primo giro di giostra.

La magia non sarà più la stessa e il vostro nuovo viaggio sarà verosimilmente più un esercizio di stile o un tentativo di trovare un'ancora all'interno del feroce turbinio dei vostri pensieri, laddove è proprio quel senso di precarietà e di sfumatura che rende questa opera una delle più intense di sempre.

Certo, l'Inglese è quanto mai necessario per godersi appieno l'opera di TheChineseRoom, ma se vorrete provare un'esperienza unica, credo che possa comunque valere la pena acquistarlo anche se dovrete munirvi di un vocabolario, grazie a un doppiaggio a tratti molto intenso e capace di sopperire alla non piena comprensione dei testi.

Non si salta, non si spara, non ci sono avversari e non ci sono boss di fine livello: nonostante ciò Dear Esther rappresenta un ulteriore passo in avanti verso la definizione delle potenzialità emotive che il videogioco è (o sarà) in grado di raggiungere.

Sebbene quindi qui il risultato sia solo poco più che abbozzato, ci sentiamo in dovere di premiare gli sforzi fatti per alzare l'asticella, grazie ad un coinvolgimento emozionale che troppo spesso in passato è risultato troppo artefatto per essere considerato.

8 / 10
Avatar di Roberto Bertoni
Roberto Bertoni: Proveniente dalla ridente Brianza, è cresciuto a pane e Amiga. Ama inoltre in maniera viscerale il retro, ma solo videoludico. Piatto preferito: pollo con la carrucola in mezzo.

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Dear Esther

PS4, Xbox One, PC

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