Videogiochi: perché se ne parla sempre male? - editoriale
L'immagine “cattiva” è difficile da togliere e la pubblicità non sempre è buona.
Si direbbe che con un mercato che macina profitti più dell'industria musicale e di quella cinematografica (94 miliardi di dollari per i videogiochi nel 2016 secondo Superdata) i videogiochi meriterebbero perlomeno qualcosa di più dal punto di vista dell'immagine pubblica. Eppure, se si tratta di fare una discussione seria riguardo a questo medium, i "giochini" vengono spesso coinvolti quando bisogna considerare l'aspetto negativo. Come se ormai avessero una connotazione difficile da togliere, o forse perché sono un capro espiatorio facile e quindi non conviene farlo (ancora).
Su Electronic Arts e come ha trattato le microtransazioni abbiano scritto fiumi di parole. Ora, però, il terreno di gioco è cambiato. Se ne sta parlando già in Belgio, nelle Hawaii e anche in Francia, dove le loot box, che generano casualmente un "premio" pagandole anche in denaro contante, vengono messe alla gogna. La proposta è che siano trattate come gioco d'azzardo e in quanto tali regolamentate come poker, lotterie e scommesse.
In Belgio la commissione gioco ha avviato un'indagine e il risultato è che "mischiare monete e dipendenza è un azzardo. Mischiare azzardo e videogiochi, specialmente in giovane età, è pericoloso per la salute mentale di un ragazzo", secondo il ministro della Giustizia Koen Geens. In definitiva "vogliamo sicuramente vietarle". Una posizione netta sull'argomento.
In Francia il senatore Jerome Durain ha scritto all'ARJEL (Autorité de Régulation des Jeux en Ligne), responsabile per le regolamentazione del gioco d'azzardo online, affinché venga presa in forte considerazione la situazione, portata alla luce da Star Wars: Battlefront II.
Una discussione doverosa: se le loot box sono assimilabili al gioco d'azzardo, così sia ed è giusto che siano regolamentate come tali. Il punto è un altro: le luci della ribalta puntano ancora sul videogioco soltanto in una situazione negativa e, in ogni caso, mai quando si può cambiare un meccanismo mentale (videogioco uguale a passatempo inutile e spesso dannoso) che ha attecchito nell'immaginario pubblico ormai da troppo tempo. La discussione legata al gioco d'azzardo, che potrebbe presto arrivare anche in Italia di questo passo, di certo non aiuterà a migliorare le cose.
Altro tassello. Nei giorni scorsi, ospite al programma "Che tempo che fa?", il presidente del CONI (Comitato Olimpico Nazionale Italiano) Giovanni Malagò ha bollato come "barzelletta" l'idea che gli eSport possano entrare in una forma ancora indefinita a far parte delle Olimpiadi dopo che il CIO (Comité International Olympique, ossia il Comitato Olimpico Internazionale) ha aperto le porte all'idea. Il punto non è tanto l'opinione di Malagò (non è l'unico a pensarla in questo modo), bensì com'è stato trattato l'argomento.
Fra le citazioni del giornalista Fabio Fazio a Space Invaders e a Super Mario (e non pensiamo proprio che stesse pensando all'ultimo capitolo per Switch), l'idea è che tante persone siano ancora ferme al videogioco da sala giochi. E non quello di oggi, con cabinati ultra costosi e che usano anche la realtà virtuale, bensì a quello dei tempi di Metal Slug, House of the Dead e Virtua Striker, produzioni che probabilmente persone dell'età di Fazio e Malagò hanno usato oppure intravisto quando erano più giovani.
Se doveste pensare a quando un videogioco o l'industria tutta è stata al centro della discussione mediatica, di certo vi verrà in mente Grand Theft Auto di Rockstar Games, preso come esempio di videogioco da bandire e di come il medium intero sia potenzialmente violento. Oppure di tutte le volte in cui nelle stanze di chi ha commesso un efferato omicidio si trovavano videogiochi di guerra (il Call of Duty del momento magari). E il collegamento logico è sempre: giocava ai videogiochi ecco perché è diventato quello che è. Magari in quella stanza c'erano anche CD musicali di Beyoncé o riviste di cucina, ma poco importa perché il videogioco è un capro espiatorio migliore.
Questa visione è radicata da decenni ma ormai è fortemente anacronistica alla luce di quanto l'industria si stia espandendo in varie direzioni. Ci sarà sempre qualcuno che non riesce a comprendere un altro medium, vuoi per partito preso oppure per ragioni di età o gusti personali, ma mi viene difficile pensare che per i videogiochi la strada verso l'accettazione sia facile.
E dire che di esempi virtuosi, ossia di videogiochi che si sono messi al servizio di una causa più grande, ce ne sono eccome. Basti pensare alla forte esperienza di That Dragon, Cancer, in cui Ryan e Amy Green raccontano la loro vita mentre loro figlio era malato di cancro. Oppure alle storie di giovani ragazzi colti da una forte depressione che proprio grazie ai videogiochi (come The Legend of Zelda: Breath of the Wild) hanno ritrovato la gioia di andare avanti. Anche studi scientifici hanno portato a simili risultati, definendo i risultati ottenuti dai videogiochi paralleli a quelli di altre terapie, come gli antidepressivi.
Sarebbe anche di gran lunga preferibile che sui notiziari di tutto il mondo apparissero giochi come quelli di Molleindustria, team italiano che ha voluto usare questo medium per scagliare frecciate su tanti temi politici: l'estrazione del petrolio, i retroscena della realizzazione degli smartphone, l'industria del fast food. O, ancora, giochi come Path Out, in cui Abdullah Karam racconta come è fuggito dalla guerra civile in Siria per rifugiarsi in Turchia. Produzioni che danno del medium una visione più sferica e meno spigolosa.
E se gli esempi positivi ci sono, allora resta solo una domanda da farsi: il problema sono "gli altri" oppure è il medium che non sempre riesce a mostrare il meglio di sé?