Violenza nei videogiochi, bisogna conoscere i limiti - editoriale
Siamo pronti per parlarne?
Sparare a una folla di studenti senza alcun senso può essere divertente? È una domanda che emerge spontanea dopo che uno sviluppatore che Valve ha definito un "troll", noto come Ata Berdiyev, ha provato a far pubblicare su Steam un "simulatore di sparatorie di massa nelle scuole" dal titolo Active Shooter. I frequenti casi di cronaca nera che ci arrivano dagli Stati Uniti sono un contesto troppo delicato per un prodotto di questo genere. È subito scattata la denuncia di Infer Trust, associazione che fornisce supporto e consulenza a chi ha sofferto di violenza causata dalle armi. Difendendo il suo operato l'autore del gioco ha consigliato di "non prenderlo seriamente. È da prendere solo come una simulazione e nient'altro".
Si poteva vestire i panni sia dell'operatore SWAT che deve intervenire sia di chi, invece, sta sparando sugli innocenti. È soprattutto quest'ultima possibilità ad aver alzato il polverone.
C'è poco da dire: Active Shooter era un'operazione bieca, spudoratamente finalizzata a proporre soltanto degli asset di un motore grafico leggermente modificato per provare a guadagnare qualche soldo a costo quasi zero, una pratica nota come "asset-flipping". Il fatto, però, riporta alla luce un discorso che deve essere affrontato: quanto in là è giusto che il videogioco si spinga quando si tratta di rappresentare eventi reali di violenza? Siamo pronti per supportare e sopportare esperienze interattive che facciano della violenza gratuita legata a fatti reali un semplice divertimento? Soprattutto dovremmo mai essere pronti ad accettarlo?
Il confronto con film e libri, infatti, non è così immediato. Il videogioco porta in seno un insieme di caratteristiche sensazionali, che mischiano insieme le migliori qualità delle narrazioni e delle colonne sonore dei film e allo stesso tempo offrono un grado di interattività che, come abbiamo recentemente visto nel Detroit: Become Human di David Cage e Quantic Dream, permette di confrontare se stessi con scenari molto ambigui.
Ciò implica anche, però, che il videogioco deve conoscere limiti propri, deve tracciare linee che non siano le stesse di film e libri; semplicemente perché non può, è diverso, sia quando ciò ha connotazioni positive sia quando potrebbe averne di negative.
È quindi necessario che il medium affronti questo discorso di petto: quando la violenza va bene e quando, invece, è un assoluto affronto ai tragici eventi della realtà? Non sono mai mancati videogiochi molto discussi e che hanno fatto della violenza il perno dell'intera esperienza di gioco da Carmageddon (investire pedoni senza un motivo?) a Postal (poveri gatti). Potremmo anche aggiungere un Hotline Miami, che ci immerge in un'atmosfera di purissima e istantanea brutalità che, per quanto mi riguarda, ha travolto ben più di quanto qualsiasi Grand Theft Auto abbia mai fatto, ma il cui aspetto grafico stilizzato senz'altro ha contribuito a non generare polemiche: erano più evidenti, insomma, le intenzioni ludiche rispetto a potenziali vene simulative.
Active Shooter, come anticipato, non è il riferimento corretto: molto probabilmente ha ragione Valve nell'etichettare il suo sviluppatore come "troll" e l'intera operazione come una stupidata. Specialmente quando visti da fuori, però, i videogiochi hanno sempre avuto qualche problema a comunicare la loro intenzione di trattare con il giusto tatto e, talvolta, la giusta critica avvenimenti importanti.
Ricordate Six Days in Fallujah? Era un videogioco che nel 2009 era stato annunciato da Atomic Games e che sarebbe dovuto essere pubblicato da Konami. Era ambientato nella seconda battaglia di Fallujah di quattro anni prima e avrebbe rappresentato l'esperienza del terzo battaglione dei Marine statunitensi. L'attacco mediatico fu immediato: gli avvenimenti reali erano troppo recenti e c'era il timore che il videogioco avrebbe potuto sminuire la tragicità di quell'evento. Ben presto Konami si tirò indietro e il progetto venne meno nonostante le meccaniche di gioco avessero anche grandi ambizioni.
Ecco un elemento che sembra essere essenziale in quest'ottica: il fattore tempo. Six Days in Fallujah dipingeva su schermo una battaglia che era accaduta soltanto pochi anni prima, in un contesto in cui il dibattito sulla presenza degli Stati Uniti in Iraq era molto sentito. In compenso di giochi sulla seconda guerra mondiale ne abbiamo avuti a bizzeffe, da Call of Duty a Battlefield fino a Medal of Honor, Sniper Elite e Brother in Arms; va bene, insomma, se la guerra è "storia vecchia", è stata accettata, studiata e assorbita; non va bene se è recente, discussa, ambivalente e se i videogiochi vengono visti (a volte ingiustamente) come un modo di sminuire un dibattito critico.
E dire che da parte loro alcune volte i videogiochi hanno saputo - talvolta raccogliendo a piene mani da opere precedenti - dire la loro sulla guerra. Spec Ops: The Line ci butta in mezzo a una Dubai devastata dalle tempesta di sabbia, ma soprattutto da una guerra civile che l'ha doppiamente sconvolta subito dopo. La guerra nella guerra, che scopriremo ben presto essere alimentata da un clima di terrore generato da un ex soldato statunitense mandato lì inizialmente per salvare la popolazione civile. Sì, l'ispirazione è netta: prima "Cuore di tenebra" di Joseph Conrad e poi "Apocalypse Now" di Francis Ford Coppola.
Anche la rappresentazione videoludica, comunque, riuscì bene, al netto di meccaniche di gioco invece ripetitive, a raccontare una visione distorta della guerra e di come trasforma gli uomini. Venne però bandito negli Emirati Arabi Uniti.
Ci sono anche produzioni minori che, sempre parlando di guerre civili, devono essere menzionate per il lavoro che hanno svolto. Come Path Out di Causa Creations, che racconta la storia di Abdullah Karam e di com'è scappato dalla Siria per sfuggire agli orrori e alla devastazione della sua città. Un gioco che si è meritato diversi premi e che fornisce una prospettiva ravvicinata alla quotidianità che viene vissuta in quelle zone.
Allo stesso modo chiunque ha riconosciuto il valore di produzioni videoludiche dove una violenza più matura è contestuale e, soprattutto, trattata a dovere: The Last of Us porta fino all'estremo il rapporto che un padre può avere verso una figlia o un'altra persona che gliela ricordi anche quando lo spinge a compiere azioni impulsive e violente.
È però la potenziale violenza gratuita fine a se stessa a rappresentare il nodo della questione. Quella che magari fa ridere all'inizio, ma che richiede anche di fermarsi un attimo a chiedersi: è giusto? E serve un discorso che sia trasversale: è l'intera industria che prima di inorridirsi nei confronti di una nuova critica a un videogioco deve capire se e in che modo può aver oltrepassato un limite e, nel caso, come non ripetere quell'errore.
Perché basta un solo Active Shooter, che è stato un argomento di pochissimi giorni, a rovinare l'immagine di questo medium. Un soffio per essere usato come caprio espiatorio; un errore per distruggere anni di opere interattive sensazionali, mature e dalle grandi potenzialità, su ogni genere.
Quand'è che la violenza può essere il catalizzatore dell'intrattenimento o, anzi, può essere usata per una narrazione matura e quando, invece, è soltanto una superficiale ed evitabile simulazione della realtà?