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We Happy Few - recensione

Dio ci salvi dalla Regina.

Adattarsi per sopravvivere, in questa breve frase potremmo raccogliere l'intero senso di We Happy Few: il suo stesso sviluppo ad esempio, che lo ha visto cambiare di volta in volta per compiacere i fan in spasmodica attesa. Nel lontano 2016 l'opera di Compulsion Games esordiva in early access rivelando un survival arduo, dispersivo nella sua struttura sandbox e crudele nella sua difficoltà. Ma adattarsi è la chiave di tutto, ed il titolo che ci arriva oggi tra le mani ha in parte cambiato pelle, mantenendo però la sua riconoscibilità. A questo punto vi starete chiedendo cosa aspettarvi da questo curioso We Happy Few, e noi siamo qui per fare luce sull'arcano.

Ci troviamo a Wellington Wells, cittadina inglese che solo all'apparenza sembra il luogo perfetto in cui vivere. I suoi cittadini sono sempre cordiali, sorridenti ed allegri, forse anche a causa della "Gioia": una potente droga che causa una sensazione di benessere totale in chi la assume. Dietro cotanta chimica felicità si nasconde però una società ermetica, paranoica verso il diverso e sull'orlo del baratro. In questo mondo distopico faremo la conoscenza di tre personaggi che, per ragioni diverse, tenteranno la fuga da Wellington Wells, ed il compito non sarà affatto facile.

I dottori sono in grado di distinguere chi ha assunto la gioia dal semplice odore.

In prima istanza il protagonista noto fin dai primi trailer è Arthur, giornalista e scribacchino che durante il suo solito turno di lavoro, legge una notizia che gli fa riaffiorare ricordi lontani della sua infanzia. Decide quindi di non assumere la pillola quotidiana, provocando violente reazioni nei suoi colleghi. Dopo la rocambolesca fuga dall'ufficio ci ritroviamo quindi nel Garden District al di fuori della città, ed è proprio da questo momento che ha inizio il nostro viaggio. We Happy Few nella sua versione definitiva si appoggia interamente ad una narrazione ben delineata, in cui impariamo a conoscere il nostro alter ego, le motivazioni nel diventare un fuggitivo ed il perché del suo piano di fuga. Tutta l'avventura viaggia su missioni principali e secondarie, utili ad ottenere oggetti indispensabili per l'evasione.

Attuarla però non sarà semplice, perché al di fuori del complesso cittadino la popolazione vive in grave povertà, esiliata sempre a causa della Gioia, motore di tutta la società di We Happy Few. Ritornare tra le mura urbane è compito non da poco: ogni zona è controllata da tornelli in grado di rivelare tracce di droga nel sangue, ed ogni singolo cittadino di Wellington Wells non esiterà a lanciare l'allarme in caso di comportamenti sospetti. Saranno tanti gli aspetti a cui prestare attenzione per sopravvivere, e la prima e più importante lezione che ci viene insegnata è di adeguarsi al gregge nel vestiario, negli atteggiamenti e nella "gioia quotidiana". Senza dimenticare che il nostro Arthur ha bisogno di mangiare, bere e dormire come qualsiasi altro essere umano.

La nostra videorecensione di We Happy Few.Guarda su YouTube

In realtà le meccaniche survival sono state alleggerite particolarmente dall'early access: curare o meno la nostra alimentazione porta solo a bonus e malus in combattimento, e restare digiuni o disidratati non porta più ad una prematura dipartita. In principio la prima incarnazione di We Happy Few era molto più crudele in tal senso, resettando l'inventario del giocatore e modificando l'intera mappa. Adesso la proceduralità è presente solo tra un atto e l'altro della campagna, in cui ogni protagonista avrà a che fare con una Wellington Wells dalla fisionomia modificata: intere zone vengono mescolate tra loro, cambiando forma ad ogni storia. Un espediente che dona una leggera freschezza man mano che si macinano ore di gioco, ma che non rappresenta il cuore pulsante del titolo di Compulsion Games.

Il fiore all'occhiello è lei, la Gioia, e tutte le meccaniche legate ad essa: da scanner pronti a lanciare l'allarme "musone" (così vengono chiamate le persone che non la assumono) a dottori in grado di fiutare l'odore emanato dalla sostanza. Utilizzare la velenosa pillola ha conseguenze sul nostro corpo, e rimane un elemento strategico da sfruttare a proprio rischio e pericolo. In quanto droga genera infatti assuefazione ad ogni utilizzo, e dopo l'euforia iniziale che muta il mondo intorno a noi con arcobaleni, musiche e farfalle svolazzanti, alla fine dell'effetto rischieremo di entrare in astinenza (con effetti ben riconoscibili, quindi pericolosi).

La polizia è la prima minaccia da affrontare in città. Qualsiasi comportamento sospetto la allerterà.

Tornando al nostro Arthur, si comprende come la sua sia una campagna introduttiva a tutte le meccaniche di We Happy Few, come il crafting di oggetti e medicinali presso appositi banchi da lavoro, disponibili in rifugi che permettono anche il viaggio rapido. La difficoltà quindi cresce ad ogni atto, col passaggio alle vicende di Sally ed Ollie, limitati in alcuni aspetti dalle proprie capacità (la donna è una farmacista mentre l'uomo è un ex soldato non troppo brillante). Gli atti a loro dedicati sono anch'essi una novità della versione finale del titolo, e riescono comunque a regalare momenti estremamente interessanti.

Questo perché We Happy Few eredita in parte degli elementi da immersive sim, lasciando al giocatore la scelta di come approcciarsi alle missioni. Non siamo ai livelli di un Dishonored o di un Prey, ma una certa libertà di manovra è presente, ad esempio tra un modus operandi violento od uno più furtivo. Sul fronte dei combattimenti, basati su scontri corpo a corpo, il lavoro fatto risulta un po' raffazzonato tra hitbox non sempre precise e caos generale quando si viene circondati. Convince di più la componente stealth, accompagnata dal crafting di grimaldelli, bombe fumogene e dardi stordenti. L'inventario da poter creare è vasto e con qualche chicca degna di nota, da ombrelli elettrici (molto british) a granate capaci di causare brutti malesseri alle proprie vittime.

In definitiva, il vero punto di forza di We Happy Few è il suo stesso mondo, la distopia che emerge ogni volta che un uomo decide di dimenticare fatti spiacevoli assumendo gioia chimica. Ma non pensate che a controllarvi ci sia un qualche "Grande Fratello" che tutto vede: Wellington Wells nasconde molto di più, e il comprendere a pieno i meccanismi di questa folle città inglese riesce a catturare più degli eventi che viviamo. Non ci troviamo davanti ad un progetto all'altezza degli ultimi immersive sim targati Arkane Studios, ma ad un tributo che manca di una certa pulizia sul fronte del puro gameplay. Il valore però c'è e sarebbe un peccato sotterrarlo sotto alcuni difetti.

Le meccaniche stealth funzionano decisamente meglio del combattimento, che risulta spesso troppo caotico.

Purtroppo, il comparto tecnico non riesce a camminare alla folle velocità di quello artistico, con alcuni problemi di ottimizzazione e frame rate. Eppure, nonostante il nostro dovere di informarvi sulle sbavature tecniche che incontrerete, è bene comunicarvi anche come la nostra esperienza abbia viaggiato in un limbo a cavallo tra la frustrazione e l'appagamento. We Happy Few mette sul piatto una delle ambientazioni più ispirate che abbiate mai visto, ma con un'esecuzione tecnica traballante.

Quello che amerete sarà la scoperta di un mondo schiavo della sua stessa paranoia, di una facciata perfetta solo all'apparenza, ma marcia fino al midollo. Una città intera che vi tenderà la mano gentilmente, ma che alla fine vi costringerà ad adattarvi per sopravvivere.

7 / 10