We Own This City Recensione, la nuova serie dell'autore di The Wire
La recensione della nuova serie tv dall'autore di The Wire.
Per un appassionato del genere poliziesco, leggere i nomi di David Simon e George Pelecanos può causare un sobbalzo interiore di gioia. Perché i due sono stati autori di serie tv come The Wire, Treme, Show Me a Hero, The Deuce, Il complotto contro l’America.
Sono stati tutti prodotti di altissimo livello, che hanno spiegato dell’America più e meglio di tanti dotti trattati sociologici, nel mostrare situazioni sociali ormai ingestibili, né con la durezza razzista/classista di prima, né con l’ipocrisia della politica correttezza di oggi.
La legalità va mantenuta, le punizioni vanno comminate, non tutti i delinquenti sono ex santi caduti, giustificare si può, battersi il petto pure, ma la situazione va affrontata con realismo. Se però ai delinquenti si può cercare di trovare qualche alibi, viste le condizioni in cui ormai da decenni si trovano certi quartieri (scuole comprese), diventa molto più dura giustificare certi comportamenti dei tutori dell’ordine. Si dirà che è un mestiere duro, dalle scarse soddisfazioni, con stipendi inadeguati ai rischi e alla fatica. Ma questo non può giustificare né la brutalità sicura di restare impunita, né la corruzione, piaga che affligge ogni attività umana ma che in chi è preposto alla somministrazione della giustizia risulta particolarmente odiosa.
Su corruzione e brutalità da parte della Polizia abbiamo avuto film che ci hanno dato immense soddisfazioni, da Serpico in poi, titoli come Training Days, Rampart (epocale), La notte non aspetta, Affari sporchi, L.A. Confidential (da leggere tutti i libri di James Ellroy), Harsh Times, il francese Rogue City e serie tv come The Shield, Bosch, Southland. Dopo The Wire, una di quelle serie tv che negli anni 2000 hanno fatto la differenza rivoluzionando il genere, ambientata a Baltimora, Simon e Pelecanos hanno messo mano su un libro del reporter del Baltimore Sun Justin Fenton, interamente basato su fatti reali, che racconta l’ascesa e la caduta di alcuni elementi di un corpo di Polizia prestigioso, la Gun Task Force. E quando si cade ci si ritrova sempre da soli.
2015, a Baltimora l’atmosfera è ancora surriscaldata per la morte di Freddie Gray, avvenuta mentre era in custodia della Polizia, alcuni agenti sono messi sotto inchiesta ma poi come è abitudine, le accuse vengono a cadere, facendo salire a mille la tensione con la popolazione di colore. Tanto per cambiare però, la Polizia di Baltimora ha anche altri scheletri nel suo armadio. Siamo all’interno della Gun Task Force, corpo creato per tenere sotto controllo la diffusione delle armi nella città, mentre altri indagano su spaccio e omicidi. I vari poliziotti si incrociano durante le indagini, spesso i rapporti sono tesi, mentre incombe sempre la minaccia degli Affari interni.
Il Capo della Polizia appena eletto sa bene in che palude si sta muovendo, mentre anche la presenza di una donna, avvocato della Divisione Diritti civili del Dipartimento di Giustizia, che indaga su mandato del Sindaco, complica le cose. Eppure i cattivi vengono arrestati, tolti dalla strada, dalla possibilità di delinquere, i numeri degli arresti sono quelli che contano. Ma il fine giustifica sempre i mezzi? E se si ingabbia la Polizia in regole di ingaggio severissime, non si rischia di bloccare del tutto la sua attività? Tema trattato in modo più sbrigativamente commerciale nelle ultime stagioni di Chicago PD, serie scritta da un altro professionista del genere come Dick Wolf.
Andando avanti e indietro negli anni, vedremo lo sviluppo dei personaggi che incontriamo nel 2017, quando cominciano gli arresti di un gruppo di poliziotti deviati. Conosciamo per primo il Sergente Jenkins, un bravissimo Jon Bernthal (The Pacific, The Walking Dead, The Punisher), poi entrano in campo gli altri, l’agente Hersl (Josh Charles che ricordiamo in The Good Wife), un’aggressiva carogna che riesce sempre a farla franca nonostante le molte denunce da parte dei cittadini; Suiter è un poliziotto della Omicidi che sa ma come tanti tace (si rivede con piacere Jamie Hector, il J. Edgar di Bosch); Nicole Steele è l’avvocatessa dei Diritti civili, interpretata da Wunmi Mosaku (The Lovecraft Country), attrice dalla forte presenza.
Forse alcuni nomi potrebbero non dire niente ma basterà guardare le facce per ricordare di averli visti numerose serie di qualità, oltre che proprio in The Wire. Ai due noti autori si è aggiunto, ed è giusto nominarlo, Ed Burns, autore oltre che interprete di molti film e serie tv. Gran cast per una serie che fa della coralità la sua forza e richiede sempre molta attenzione da parte dello spettatore, vista la quantità di personaggi e i molti dialoghi veloci.
We Own This City, una sola stagione di sei episodi e conclusiva (ringraziamo anche per questo), nello stile degli autori è girata come fosse un documentario, spesso con la camera a spalla, sembra non ci siano costumi, la musica è quella degli ambienti in cui svolge l’azione, la sigla è fatta di fotografie d’epoca, tutti i personaggi ripresi da smartphone e videocamere, quelle che oggi indossano e quelle innumerevoli di sorveglianza stradale, che però non garantiscono la certezza della colpa.
Non si cerchino iperboli narrative, sparatorie coreografate, dolorosi intermezzi famigliari o tormentate parentesi romantiche. Qui siamo nella vita vera, le indagini procedono un passo alla volta, le sparatorie sono essenziali, le famiglie, gli amori richiedono tempo e impegno che andrebbe tolto al lavoro, al cameratismo, valore supremo ma illusorio. Non c’è eroismo, c’è tanta burocrazia, e basterà un morto per overdose per dare l’avvio alla scalata verso il vertice, incrociando un verminaio di intrallazzi. Senza mai dimenticare che se ci sono poliziotti buoni e poliziotti cattivi, esistono anche altrettanti cittadini buoni e altri cattivi. A regolare la bilancia, dovrebbe essere la Legge. Dovrebbe.
Si vede invece il fallimento di un Sistema, con accuse precise alla Politica, con le assurde regole per la “guerra” alla droga che hanno devastato le comunità più povere che non potevano pagarsi un avvocato, senza niente risolvere a monte del problema, mentre l’avvento dell’amministrazione Trump avrebbe portato alla chiusura di molti uffici e vanificato tutto il lavoro svolto da chi cercava di trovare regole di convivenza meno ferine.