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C'era una volta Mortal Kombat

Una retrospettiva per la storica saga.

A tutti sarà capitato almeno una volta nella propria carriera di gamer di giocare una partita a Mortal Kombat. Erano i primi anni ’90, epoca in cui in particolare il Mega Drive catalizzava l’attenzione verso questo nascente franchise, affiancato da numerose conversioni, talvolta dalla qualità altalenante. Il secondo episodio della serie fu in grado di portare addirittura cinquanta milioni di dollari nelle crescenti casse di Acclaim nella sola prima settimana di lancio, assicurandosi titoli sulle pagine dei più importanti quotidiani economici, come ad esempio il New York Times.

Grande successo quindi per questa serie, che all’epoca riuscì ad ammaliare il mondo degli adolescenti ma al contempo non mancò di essere additata come un prodotto dai risvolti eccessivamente violenti e fu sottoposta a pesanti critiche e censure. È inevitabile comunque constatare come la violenza ne abbia costituito il fattore cruciale, distinguendolo da altri picchiaduro famosi, in particolare Street Fighter II, uscito contemporaneamente.

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Fatality, il segreto del successo

Facendo qualche indagine in rete è sufficiente inserire la chiave "Mortal Kombat Fatality" nel motore di ricerca di YouTube per veder comparire davanti ai nostri occhi oltre seimila risultati. Inserendo "Mortal Kombat Game" avremo una quantità di riscontri ancora più elevato e una buona percentuale di filmati riguarderà sempre compilation di fatality. Già di per sé tali tentativi dimostrano come questa feature, tanto violenta quanto divertente per chi gioca, negli anni abbia saputo ergersi a vero e proprio fenomeno cult. Basti pensare che la versione SNES dell’episodio originale subì alcune censure, in particolare legate all’eliminazione del sangue e fu superato nelle vendite dal secondo e terzo capitolo che reintrodussero la violenza nel suo status originario.

Peraltro bisogna considerare che le stesse mosse speciali divennero tanto popolari anche grazie ad un altro elemento capace di trasmettere fascino e interesse, ovvero la possibilità di sbloccare alcuni segreti, di rendere il gioco enigmatico, di racchiudere una profondità di contenuti superiore alle apparenze. Le fatality potevano essere portate a compimento esclusivamente per mezzo di sequenze specifiche di pulsanti del pad, riscontrate e acquisite semplicemente continuando ad effettuare tentativi di ogni tipo. Queste ultime pertanto non erano solamente condite dall’illusione del mistero, ma conferivano potere e gloria a coloro che fossero stati in condizione di padroneggiarle nel modo più consono e adeguato. Scattava così la spasmodica ricerca da parte dell’utenza di quelle informazioni utili a donare loro la giusta conoscienza, talvolta attraverso accalorate lettere inviate alle riviste specializzate, oppure tramite il passaparola che solitamente mette in relazione soggetti che condividano la medesima passione. In un mondo ancora privo della facilità odierna di veicolazione delle informazioni, in una società ancora orfana di internet e delle sue molteplici risorse, tutto ciò contribuì a creare una community consolidata intorno al brand di Mortal Kombat, costituita dai gamers così come dagli sviluppatori e dai giornalisti della stampa specializzata. E per i magazine del resto quale migliore occasione per riempire le proprie pagine con sezioni specificamente dedicate alla risoluzione di differenti problematiche legate al gioco, alle combo e ai contenuti da sbloccare.

Apologia di un trionfo

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Mortal Kombat II confermò come gli sviluppatori fossero ben consci della forza derivata dalla combinazione di violenza e contenuti segreti. Piuttosto di introdurre qualche nuova feature all’interno di meccaniche di gioco talmente consolidate e funzionali, decisero semplicemente di elevare il numero dei personaggi disponibili, aggiungendone altri otto e mantenendo tutti quelli presenti nel primo capitolo, oltre ad accrescere il numero di fatality da poter compiere. Inoltre triplicarono il potenziale delle mosse definitive aggiungendo, tra le altre, la bizzarra ipotesi di “friendship” e la “babality”, ovvero la trasformazione del proprio avversario in un bambino, per ognuno dei personaggio del roster. La scelta si rivelò quanto mai azzeccata, grazie anche alla forte campagna di marketing che contribuì ad ampliare l’attenzione verso il franchise.