E3 2019: Jason Rubin, il papà di Naughty Dog, racconta il futuro della Realtà Virtuale - intervista
Da Naughty Dog fino a Facebook e Oculus, ecco l'industria secondo Jason Rubin.
Quella di Jason Rubin è una storia incredibile, fortunata e al tempo stesso sfortunata, iniziata nel 1986 nella fase embrionale dell'industry, anno del battesimo di Super Mario Bros, e proseguita, non senza singhiozzi, fino alla partnership con Facebook e Oculus, per cui lavora oggi nell'infrastruttura first party.
Pur essendo di fronte ad uno dei padri di Crash Bandicoot, uno degli ideatori di Jak & Daxter, nonché uno degli uomini che più hanno contribuito al raggiungimento dello stato di grazia da parte di Naughty Dog, non bisogna dimenticare ciò che accadde alla conferenza D.I.C.E. del 2004, circostanza in cui Rubin fece tremare il mercato attraverso un attacco tutt'altro che velato alle politiche aziendali.
In quell'occasione, infatti, Jason tenne un discorso nel quale evidenziava tutti i più grandi problemi dell'industry, dalla spersonalizzazione degli sviluppatori fino alla moderna piega economica, una dirompente presa di posizione che portò alle sue dimissioni da Naughty Dog e a quello che, secondo voci autorevoli, avrebbe rappresentato il suo definitivo addio al settore.
Nel vivo della crisi di THQ fu chiamato a prenderne le redini per tentare un salvataggio in extremis ma, nonostante gli sforzi, l'iniziativa non fu sufficiente per compiere il miracolo, e Rubin dovette reinventarsi ancora una volta. Oggi, è head dei progetti nati in seno all'ecosistema Facebook-Oculus, il device pioniere di una realtà virtuale che, al netto dei numeri, non è ancora riuscita a fare completamente breccia nel cuore del pubblico.
Quale sarà il futuro della VR? Quale, invece, quello dell'intera industria dei videogiochi? Cosa è accaduto in occasione della D.I.C.E. 2004? Ci siamo seduti accanto a Jason in occasione dell'E3 2019 e, pieni di curiosità, lo abbiamo letteralmente sommerso di domande.
Eurogamer: Dal tuo Ski Craze degli anni '80 fino a Oculus Quest: com'è cambiata l'industria in tutti questi anni?
Jason: Oddio, è cambiata tantissimo e, voglio sbilanciarmi, secondo me è cambiata in meglio. Ogni volta che penso ai momenti in cui sviluppavo videogiochi nei primi anni '80, provo a paragonare la mia esperienza con quella vissuta dai devs contemporanei. Pensate ad uno sviluppatore come Notch: è riuscito a guadagnare miliardi grazie ai moderni meccanismi di produzione e di publishing, cose che non erano neanche lontanamente auspicabili nel momento in cui iniziai io.
L'ecosistema è molto più accessibile, ci sono finanziamenti sostenibili, gli sviluppatori indipendenti hanno i mezzi farsi notare e, soprattutto, i programmatori vengono trattati sempre meno come semplici numeri, riescono a farsi un nome, a diventare famosi quasi quanto i registi di Hollywood. E poi, ovviamente, c'è la realtà virtuale.
Eurogamer: Dici che oggi è più facile emergere o che ci sono migliori condizioni di sviluppo?
Jason: Le condizioni di sviluppo non sono mai facili, perché il videogame è per sua stessa natura un medium estremamente complesso, e le figure che coordinano il lavoro all'interno degli studi non è detto che siano state dall'altra parte della scrivania. Certo, oggi si evita agilmente una serie di problemi che, un tempo, mandavano nel panico centinaia, a volte migliaia di persone. Quando lanciammo Crash Bandicoot 2, ad esempio, capitò che al Day 1 arrivarono tre diversi bug report che segnalavano crash ripetuti e consequenziali: chi fosse incappato nel bug lo avrebbe inevitabilmente ritrovato anche nei livelli successivi.
In situazioni del genere si scatenava il caos più totale: il gioco era ormai fuori, stampato, non si poteva correggere nulla, niente patch, niente internet, niente di niente; iniziava una folle caccia alle streghe per informare gli utenti, per vie traverse, su cosa fare e cosa non fare per evitare il crash; alla fine quel bug si rivelò un semplice caso isolato, ma questo è solamente un esempio di come le cose siano cambiate da allora.
Eurogamer: La realtà virtuale sembrava aver subito una piccola battuta d'arresto, ma i titoli che abbiamo provato per Rift S ci sono parsi incredibili. Secondo te dove siamo su una scala che va da zero fino a Ready Player One di Spielberg?
Jason: Se devo essere sincero, Ready Player One è pieno di situazioni piuttosto inverosimili, feature discutibili, quindi non mi sento di prenderlo come metro di paragone. Per il resto vi do ragione: alcuni lavori che abbiamo mostrato oggi sono veramente incredibili, su tutti quelli di Ready at Dawn e Insomniac per Rift S, ma anche tutti gli altri. Se devo immaginare il picco tecnico della VR posso affermare con certezza che siamo su un gradino piuttosto basso lungo la scala che ho in mente, e il nostro futuro passa anzitutto da Quest.
Non so quanti abbiano avuto occasione di provare Quest, ma è un device completamente indipendente, senza cavi né supporti, basta indossarlo in una stanza, calibrarlo e via, si può giocare, fermarsi, cambiare stanza e cominciare di nuovo. La semplificazione è la chiave per dimostrare a tutti le potenzialità del progetto. Nel settore high-end, invece, collaboriamo con studi di persone incredibili che stanno portanto avanti una ricerca pazzesca.
Eurogamer: Secondo te l'universo della VR si presta meglio alle opere autoriali, magari indipendenti, o a titoli di massa pensati per il mercato tripla A?
Jason: Arriveranno tutte e due le opzioni, ne sono certo. Stormland e Lone Echo 2 sono solo due esempi di opere autoriali e uniche nella nostra line-up. Più in generale, c'è spazio sia per l'uno che per l'altro tipo di produzione: molti devs stanno tastando il terreno, e penso che i videogiochi nel loro insieme siano divenuti uno scatolone talmente grande da assumere proporzioni "di massa" a prescindere dalla prospettiva dalla quale si scelga di guardarli. Cito ancora una volta Minecraft: ad un primo sguardo, non sembra assolutamente un progetto nato e immaginato per vendere centinaia di milioni di copie, eppure è successo.
Secondo me, Oculus Quest svolgerà un ruolo fondamentale in questa ottica; viviamo un'epoca in cui ci sono titoli che vendono benissimo nella categoria delle donne di mezza età, a fronte di un mercato in cui, quando ho iniziato, la demografica era quasi completamente maschile. È proprio per questo motivo che siamo nel momento migliore per esprimersi: c'è spazio per tutto e per tutti, quello dei videogiochi è forse il primo mercato che è arrivato a globalizzarsi con effetti positivi; ne guadagnano gli utenti, ne guadagna il singolo developer che crea un gioco nella sua cantina e ne guadagna anche la grande società con centinaia di dipendenti.
Eurogamer: Spesso ci siamo fermati a riflettere, e dobbiamo ammettere che non siamo certi se la massima ambizione della VR debba necessariamente riversarsi nel videogioco. Tu cosa ne pensi? In quali strati della società s'imporrà la VR?
Jason: Al momento, una percentuale di gran lunga superiore al 50% del consumo VR avviene nei confini del videogioco. Ma io capisco perfettamente cosa intendete, e lo condivido in toto. A livello di educazione, ad esempio, credo che ci siano possibilità sconfinate. Pensate quanto può valere consentire ad una classe di scolari di recarsi in visita ad un museo che si trova dall'altra parte del mondo, o addirittura riprodurre interi segmenti della storia. In questo momento il settore più in crescita è quello del "travel", ma tra architettura, medicina e tantissime altre contaminazioni credo che sì, la realtà virtuale è destinata a trascendere i confini dello sviluppo di videogiochi. Spero che lo faccia attraverso esperienze uniche.
Eurogamer: L'altra faccia della medaglia è uno zoccolo duro di videogiocatori che non si è ancora avvicinato al mondo VR, continuando a guardarlo con diffidenza. Come mai?
Jason: È una situazione che non mi sorprende affatto, perché noi promuoviamo lo sviluppo di videogiochi in VR, ma siamo ben consci che sia una deriva completamente diversa rispetto alle tradizionali esperienze del settore. Il videogioco è un meltin'pot gigantesco, mentre la VR può essere intesa come un sottoinsieme che si intreccia con quello della classica industry. La chiave, secondo me, sta nell'abbassamento di tutti i requisiti: bisogna aumentare l'accessibilità e, ovviamente, sviluppare grandi giochi.
Proprio per questo motivo, non sono un grande promotore degli accessori opzionali: credo per quanto utili e affascinanti finiscono per creare un ulteriore strato di periferiche, e dunque acquisti, necessarie per vivere l'esperienza al massimo; l'obiettivo è quello di trasmettere a tutti qualcosa di incredibile con il minimo del requisito tecnico e monetario.
Eurogamer: Pensi che la motion sickness abbia un ruolo nel limbo attualmente occupato dalla VR?
Jason: È innegabile che molti potenziali giocatori siano preoccupati. Noi facciamo un grande lavoro di tutoring per ridurre il senso di motion sickness; è una cosa che non dipende dai visori o dalle tecnologie, ma ha molto più a che vedere con le meccaniche che vengono implementate a livello di sviluppo e, soprattutto, con il modo in cui sono implementate. La dissonanza cognitiva crea la motion sickness, così continuiamo ad escogitare giorno dopo giorno una serie di trucchetti che raccogliamo in un "libro delle regole" ideale, sistemi che riescono ad eliminare il problema, come la stabilità dell'orizzonte o la coincidenza dei movimenti in-game con quelli effettivamente compiuti nella realtà. Il massimo esempio di accessibilità è senza dubbio quello di Beat Saber, un titolo in cui la sensazione di disagio rasenta lo zero, anzi, credo che nessuno abbia evidenziato problemi in quel contesto.
Eurogamer: Nelle produzioni più ambiziose, tuttavia, potrebbe essere piuttosto complicato conciliare creatività e accessibilità...
Jason: Lone Echo 2 di Ready at Dawn, ad esempio, è ambientato in una stazione spaziale a gravità zero, e durante i test non è emerso alcun tipo di problema (NdR: Confermiamo, nonostante la gravità zero l'esperienza di gioco è estremamente godibile). Come mai? perché sono stati adottati una serie di accorgimenti che, seppur semplici, si sono dimostrati piuttosto impattanti a livello di controlli; le nostre sessioni di tutoring mirano proprio a rimuovere tutti quei comportamenti che, pur essendo figli della libertà alla base del visore, potrebbero rendere l'esperienza un vero inferno, come ad esempio l'agitarsi freneticamente o il roteare nel vuoto gravitazionale.
Insomma, si impara lungo il percorso, ed è una delle cose più belle nell'ambito dello sviluppo in VR: uno studio viene fuori con una meccanica inedita a livello di gameplay e finisce per stravolgere le regole per tutte le altre software house. Ed il più grande esempio è proprio il sistema basato su spinte e propulsori introdotto dai ragazzi di Ready at Dawn, che è veramente incredibile e, soprattutto, funziona senza disagi.
Eurogamer: Non ti manca mai stare in prima linea a creare giochi?
Jason: Mentirei se dicessi di no. Certo che mi manca, è stupendo, è una sensazione incredibile, ti senti quasi un dio quando "shippi" un buon videogioco. Quello che faccio ora, tuttavia, è consentire ad altri creatori estremamente talentuosi di mettere a fuoco la loro visione del medium, dandogli tutto il supporto necessario; non per vantarci, ma con Oculus e Facebook credo che siamo fra i più aperti e comprensivi nell'industry. Capita a tutti di cancellare un progetto, ovviamente capita anche a noi, ma il nostro scopo è quello di creare partnership durature con grandi creatori; la line-up dimostra il sostegno incondizionato che vogliamo offrire ai nostri partner, a prescindere dall'ambizione perseguita.
Eurogamer: Quando nel 2004 hai fatto il famoso discorso di critica all'industria durante la D.I.C.E. cosa era successo veramente?
Jason: Sai, in molti hanno letto quella presentazione come una mia personale volontà di prendere le distanze dall'intero mercato dei videogiochi. In realtà non era assolutamente così, ma si trattava di una lamentela diretta a pratiche ben definite. Con l'esperienza che ho maturato fino ad oggi, non credo che ripeterei lo stesso discorso, o meglio, lo ripeterei senz'altro, ma cambierei i modi e i toni accesi tipici della gioventù. Era un'epoca in cui, quando presentavi un gioco, o partecipavi ad un panel, nessuno sapeva né avrebbe dovuto sapere nemmeno qual'era il tuo nome, ma solamente il tuo ruolo.
Alla domanda "chi sei tu?" eri obbligato a rispondere "sono un programmatore di, sono il lead artisti di...", c'era una totale spersonalizzazione che cozzava completamente con quello che pensavo del videogioco. E se oggi sono ancora qui, tutti i giorni a contatto col mercato, è proprio perché qualcosa è profondamente cambiato; la percezione dei developers è cambiata, e anche la politica interna alle aziende sta lentamente cambiando, qualche volta in meglio e qualche volta in peggio. Il fatto che io lavori con Facebook ed Oculus ha molto a che fare con la loro politica di supporto incondizionato ai creatori di videogiochi. Anzi, ne sono ancora più orgoglioso perché adesso posso finalmente promuovere questi valori in prima persona.
Eurogamer: Grazie mille Jason, è stato un vero piacere!
Jason: Grazie a voi, e ricordatevi di provare Oculus Quest!