Toru Iwatani e la nascita di Pac-Man - intervista
Il leggendario game designer ci spiega come 35 anni fa una pizza ha cambiato il mondo.
Mi sono sempre chiesto come sarebbe avere un'idea in grado di rivoluzionare il mondo. O almeno di inciderlo tanto che, a distanza di anni, in molti ricordassero come, quell'idea, abbia un po' cambiato le loro vite.
È un'esperienza rara, che in modo profondo devono aver provato i Beatles o i Pink Floyd, George Lucas o J.R.R. Tolkien, forse il Rutger Hauer di «ho visto cose», il quale, una volta intervistato a proposito, ebbe a dirmi di «essersi sentito uno strumento», un tramite di qualche cosa arrivata da chissà dove.
«Mi accorsi dell'importanza di quello che avevo creato solo 10 anni dopo», mi confida invece Toru Iwatani alla Milan Games Week, dove il designer giapponese, proprio uno di quei rivoluzionari delle vite altrui, è stato ospite d'onore e docente in un intervento intitolato "How to Create a Good Game".
Circa l'importanza della sua idea, basterebbe darle un nome: "Pac-Man". 37 anni or sono, durante una pausa pranzo, l'allora game designer di Namco decise di ordinare contrariamente alle sue abitudini una pizza intera. Sempre che ci crediate, quel giorno il destino gli aveva regalato una fame insolita.
Una volta mangiata una fetta si trovò davanti il protagonista del suo prossimo gioco, un cerchio solcato da un cuneo che a distanza di 18 mesi, esattamente dal 22 maggio del 1980, il Giappone conobbe come "Puck-Man", dall'onomatopea "paku-paku", il suono di chi apre e chiude la bocca.
Una bocca senza occhi, «così che ognuno se la immagini come preferisce», gialla come il formaggio della farcitura e affamata quanto il suo creatore, che oggi, all'alba dei sessant'anni, insegna teoria dei giochi e serious games alla Tokyo Polytechnic University.
«A dire il vero da quella pizza alla pubblicazione definiva di "Pac-Man" trascorsero 18 mesi, ben più di quanto all'epoca si impiegasse per sviluppare un gioco» precisa Iwatani. «Con un team di otto persone ci mettemmo a lavorare come mai prima sul personaggio. Volevo creare un videogame capace di piacere alle donne, ai tempi un pubblico perlopiù estraneo al settore. Per questo decisi che il mio protagonista doveva essere simpatico, avere un aspetto rassicurante e, non lo nascondo, prestarsi alla creazione di un merchandise adatto a tutti. Intuii subito il potenziale, tanto da mettermi anche a cucire delle magliette prima che avessimo ultimato la programmazione».
Infatti Pac-Man fu il primo arcade con, sullo chassis in legno, la raffigurazione del suo protagonista: «le persone non lo avrebbero visto se il cabinato fosse stato incastrato fra gli altri nelle sale giochi ma l'avrebbero ammirato nella sua interezza qualora il gioco fosse stato alle estremità delle file. E così, spesso, accadde». In effetti a un anno e mezzo dalla sua uscita, nel mondo sarebbero già circolati 400mila esemplari della versione da sala, cifra che rese "Pac-Man" l'arcade game di maggiore successo della storia con "Space Invaders".
Mi chiedo se la forza iconica della palla paglierina sia il segreto di Pac-Man, il cui nome, a proposito, divenne quello noto a tutti quando Midway, nell'ottobre del 1980, decise di lanciarlo sul suolo statunitense e di trasformarlo per evitarne storpiature oscene sul suolo anglofono.
«No, se dovessi indicare il segreto del successo di Pac-Man penserei anzitutto alla sua giocabilità, avvincente e soprattutto d'immediata comprensione. Chiunque si fosse trovato davanti una schermata del gioco avrebbe dovuto intuire il da farsi senza alcuna spiegazione. E il da farsi avrebbe dovuto essere molto divertente. Motivo per cui aggiungemmo, vero punto di forza del progetto, quattro antagonisti caratterizzati, ognuno, da intelligenze artificiali personalizzate, con comportamenti diversi. E, anche in questo caso con un aspetto molto "cute", che il pubblico femminile avrebbe potuto gradire. Anche la scelta dei colori degli avversari arriva da questa esigenza».
Non è un caso che i fantasmini Blinky, Pinki, Inky e Clyde siano celebrità quanto l'iconico protagonista giallognolo. Ah, giallo, perché «neutro. Caratteristica cromatica mantenuta costante in tutte le versioni successive del personaggio. Cosa che, a dirla tutta, ha anche causato qualche problema quando è stato il momento di inventarsi partite in co-op negli anni successivi.
Come differenziare i personaggi manovrati dai giocatori senza snaturarne la caratterizzazione? Non fu sempre semplice decidere ma pare il risultato sia stato soddisfacente visto che anche Shigeru Miyamoto ha ammesso di essersi ispirato a "Pac-Land" (settimo capitolo della saga, pubblicato da Namco nel 1984) durante lo sviluppo di "Super Mario Bros."»
Appunto, idee in grado di cambiare la vita altrui. E di incassare, a 35 anni esatti dalla pubblicazione, 7,6 miliardi di dollari. Un indotto, come nel caso dell'epopea stellare creata da Lucas, generato dalle versioni del titolo disponibili su ogni piattaforma ludica (da quelle virtuali ai telefoni), dalle decine di sequel, dal merchandise più assortito, dalle mod non ufficiali prodotte in quantità dai fan (fra cui il delizioso "Anti-PacMan" in cui il giocatore manovra gli ectoplasmi), dai cartoon (anche "Futurama"), dai cross-over (l'ultimo è "Super Mash Bros." di Nintendo, in cui la palla famelica è un combattente giocabile) e dalle comparsate televisive. In sintesi, dalla capacità di diventare un'icona pop globale, omaggiata da Google (il cui doodle dedicato ha generato 500milioni di partite in 24 ore) e dall'industria dell'immaginario per eccellenza: Hollywood.
"Pac-Man" fa bella mostra di sé in "Pixels", film diretto da Chris Columbus con Adam Sandler e Peter Dinklage, volto e voce ormai famigliari ai videogiocatori di tutte le terre emerse. Una pellicola vergognosa, lo si ammetta, ma capace di testimoniare definitivamente come oggi il videogioco sia parte integrante delle fantasie e del background culturale di mezzo mondo (forse di più).
«Nel film Pac-Man mi mangia addirittura un braccio», in realtà non a Iwatani san ma a Denis Akiyama che lo interpreta. Il game designer in effetti compare ma nei panni di un tecnico che in una sala giochi armeggia, guarda un po', con la versione arcade del suo gioco. Non che la cosa faccia qualche differenza, visto che è noto quanto l'autore detesti qualsiasi rilettura o utilizzo violento della sua creazione, tanto di rifiutarne una versione da casinò negli anni '80, visto che «Pac-Man, un personaggio per bambini, non avrebbe mai potuto campeggiare in una sala in cui si giocasse d'azzardo.
E comunque, precisa, il Pac-Man di "Pixels" non è cattivo; ne ho parlato approfonditamente con gli sceneggiatori, semplicemente è controllato da un'intelligenza aliena. Sembrerà una fissazione ma ho sempre voluto che Pac-Man non avesse a che fare con qualsivoglia manifestazione di aggressività o violenza».
Il che rischia di suonare come una presa di posizione netta nella diatriba che vorrebbe i videogiochi come oscuri portatori di morte. «No. Per quanto non apprezzi i videogiochi violenti, ritengo che la rappresentazione dell'aggressività e del sesso in un videogame debba essere attentamente valutata da autori ed editori senza che di per sé costituisca un tabu o un limite imposto una volta per tutte».
Ma perché un autore tanto lucido ha, dal 2007, abbandonato la produzione dei videogiochi per darsi all'insegnamento? «Non ho mai abbandonato la progettazione. Anzi, con i miei studenti stiamo elaborando la prima "Gaming Suit", una tuta in grado di fondere un gioco, il display e il suo giocatore. Credo che il futuro del settore sia proprio qui. Oggi c'è grande entusiasmo per la realtà virtuale, la realtà aumentata e quella mista. Ma al di là dell'impatto sorprendente di queste tecnologie, credo che alla lunga i visori stressino chi li indossi. Per questo sono convinto che il gioco del futuro sarà ingeribile. Prima o poi il divertimento sarà tutt'uno con il corpo del giocatore». Sarà che a dirlo è il papà di "Pac-Man", ma in 35 anni la sua voglia di idee capaci di cambiare il mondo sembra sempre famelica.