Mark Rubin e la tensione del rigorista - intervista
Venti minuti con la mente dietro Call of Duty: Ghosts.
Non si dice mai di no quando si presenta l'opportunità d'intervistare Mark Rubin, Executive Producer di Infinity Ward, nonché "deus ex machina" di Call of Duty: Ghosts. Eccovi dunque il resoconto di una chiacchierata di venti minuti nei quali abbiamo spaziato dalla next-gen alle analisi di mercato, e dal game design alla... pressione che subiscono i rigoristi.
Eurogamer: La complessità del multiplayer di Call of Duty, anno dopo anno, strato dopo strato, pare seconda solo a quella degli MMO. Non avete paura che ci siano ormai troppe cose da vedere nei dodici mesi che separano un episodio dall'altro?
Mark Rubin: Se pensi alla quantità di contenuti disponibili e alle ore richieste per vederli tutti, in effetti parliamo di un'offerta eccellente. Al punto che non ti nascondo che sarei più contento se ce ne fossero di meno, di contenuti, perché avrei senz'altro meno da lavorare! Però quando fai il game designer tendi ad affezionarti alle tue idee e a cercare di includerle tutte nei tuoi giochi.
Eurogamer: Avete calcolato quante ore siano necessarie ad approfondire tutti i contenuti del multiplayer?
Mark Rubin: Personalmente non saprei ma abbiamo addetti il cui compito è proprio bilanciare le varie componenti in termini di tempo. Diciamo che è possibile approfondire tutti i contenuti di Call of Duty: Ghosts in un anno, ma scegliendo tra l'avere un lavoro o una famiglia. Tutte e due assieme non è possibile!
Eurogamer: Quando mi avvicino il multiplayer di un Call of Duty vedo talmente tante cose che mi paiono una barriera insormontabile. A maggior ragione per l'utente occasionale, non avete paura di creare un monte Everest di modalità, perk e parametri?
Mark Rubin: Spero di no e credo che la modalità Squads sia perfetta per coloro che si avvicinino per la prima volta a Call of Duty, offrendo un approccio più soft e personalizzato rispetto al doversi gettare nell'arena insieme ai giocatori più esperti. E poi c'è sempre la campagna single player per chi proprio non vuole giocare online. In generale, però, anche se il gioco si è stratificato anno dopo anno, la sua essenza è rimasta immutata. Parlo del corrersi dietro e spararsi, una versione per adulti del guardie e ladri che si giocava da piccoli. E poi, proprio perché abbiamo un'offerta così ricca, chiunque potrà trovare qualcosa che faccia al caso suo.
Eurogamer: Ogni anno voi e Treyarch avete la responsabilità di introdurre nuove idee in una serie più che matura. Come game designer, non hai mai paura che la creatività ti abbandoni, col risultato di non introdurre alcuna novità degna di nota?
"Non c'è scambio di idee tra Treyarch e Infinity Ward, visto il ciclo di sviluppo biennale di ogni titolo"
Mark Rubin: Ammetto di aver pensato a questa eventualità ma fortunatamente non è ancora il momento.
Eurogamer: Quanto ci siamo vicini?
Mark Rubin: Credo che siamo ancora lontani. Qualunque game designer ti dirà che non appena finisce un gioco è pieno di idee che non è riuscito a inserire e lo stesso vale anche per noi di Call of Duty. Quando accade, il processo di sviluppo di queste idee passa da capitolo all'altro del gioco.
Eurogamer: Intendi dire che c'è uno scambio di idee con Treyarch in termini di sviluppo oppure che questo è limitato agli episodi di Infinity Ward?
Mark Rubin: Non ci scambiamo idee con Treyarch, ce le passiamo all'interno di Infinity Ward da un'edizione all'altra. Non per altro ma per una questione di scadenze: visto lo sviluppo biennale, quando noi concludiamo un Call of Duty, i Treyarch stanno già lavorando al loro da un anno.
Eurogamer: Nel caso dell'attenzione verso gli eSport, parrebbe però che ci sia un passaggio di testimone tra voi e Treyarch...
"L'attenzione verso gli eSport non è tanto una questione di game design quanto di supporto alle federazioni e agli eventi"
Mark Rubin: Black Ops II l'anno scorso ha decisamente premuto l'acceleratore sugli eSport e noi, con Call of Duty: Ghosts, continuiamo su questa linea aggiungendo altre idee. Ma l'attenzione verso gli eSport non è tanto una questione di game design, quanto di supporto successivo alle federazioni che li sostengono e agli eventi che ospitano tornei di Call of Duty.
Eurogamer: Call of Duty vende da sempre milioni di copie. Perché entrare in un mercato degli eSport, difficile, altamente competitivo e composto da giocatori particolarmente esigenti? Le quote di mercato che rappresenta per un brand affermato come il vostro, non credo siano significative.
Mark Rubin: Il pubblico di Call of Duty è composto prevalentemente dai cosiddetti "giocatori occasionali dedicati", ossia da persone che comprano magari un titolo all'anno, cioè il nostro, e giocano solo quello. Non sono hardcore gamer, non acquistano altri videogiochi. L'idea di entrare negli eSport è di allargare il brand ad altre fasce di mercato o di coinvolgere in queste discipline i nostri "dedicated casual gamer". Non tanto come giocatori ma anche solo come spettatori di eventi che, ormai, attirano milioni di persone. Perché guardare gli sport alle volte è tanto divertente quanto praticarli.
SEurogamer: Quali sono le vostre aspettative circa la next-gen? Quanto credete possa allargare un mercato che sembrerebbe abbiate già ampiamente sfruttato?
Mark Rubin: Non so quanto la next-gen potrà effettivamente allargare la base utenti dal punto di vista tecnico. Se accadrà, sarà per via dei servizi offerti, che attireranno persone che diversamente non valuterebbero l'acquisto di una console. Insomma, è il solito discorso di avere non solo una macchina da gioco ma un centro dell'entertainment casalingo capace di far girare videogiochi e film meglio di qualsiasi altro elettrodomestico. E attenzione, questo è un discorso questo che vale non solo per l'Xbox One ma anche per la PlayStation 4. Non credo accadrà mai ma sarebbe una sorpresa se con la next-gen si venisse a creare un mercato di persone che comprano le console per i servizi e non per i videogiochi. Se la nostra base utenti continuerà a crescere, come sta già facendo adesso a ogni anno, credo che sarà un processo scollegato dall'arrivo della next-gen.
"Sarebbe una sorpresa se con la next-gen si venisse a creare un mercato di persone che comprano le console per i servizi e non per i videogiochi"
Eurogamer: Fatte cento le persone là fuori che comprerebbero un Call of Duty, quante credete di averne già raggiunte? Quanto è rimasto ancora da esplorare al brand in termini di mercato?
Mark Rubin: Bella domanda ma non credo di avere una risposta precisa da darti o dei dati che potrei usare. Credo però che il mercato la fuori sia un bersaglio mobile, non fisso. Prendi CoD 4: è stato uno dei maggiori successi della serie con oltre 17 milioni di copie vendute, un numero esorbitante eppure composto solo da hardcore gamer. Nei capitoli successivi, però, abbiamo cominciato a essere interessanti anche per altre categorie, alcune delle quale non avevano neanche un nome, come i "dedicated casual gamer" di prima. Pertanto, oltre ad esserci un ricambio fisiologico all'interno dei gruppi già esistenti, la diffusione del brand finisce per allargarsi ad altre fasce di mercato. Ecco spiegata la ragione per cui i limiti del brand di Call of Duty sono ancora tutti da esplorare.
Eurogamer: Call of Duty è un marchio in crescita da anni ma sappiamo entrambi che nulla dura per sempre. Pensando a Ghosts, ti hai mai sfiorato la paura di essere colui che potrebbe interrompere una lunga serie di successi? Un po' come i rigoristi in una partita di calcio, a sperare che il penalty lo sbagli sempre quello dopo?
Mark Rubin: È un pensiero che ogni tanto mi passa per la testa. Nel fare il nostro mestiere capita di allontanarsi dalla vita di tutti i giorni, di segregarsi nei propri uffici lavorando anche 18 ore al giorno. E c'è senz'altro la paura di non riuscire a fare un gioco bello tanto quanto quello che l'ha preceduto.
" Nel fare il nostro mestiere capita di allontanarsi dalla vita di tutti i giorni, di segregarsi nei propri uffici lavorando anche 18 ore al giorno"
Eurogamer: Parli in termini qualitativi o di venduto? Quali sono le tue priorità?
Mark Rubin: Ti rispondo dicendo che se Call of Duty: Ghosts vendesse la metà di Black Ops II, sarebbe comunque un bestseller.
Eurogamer: Beh, se io perdessi la metà dei lettori Eurogamer non resterei certamente al mio posto, quindi sono contento per te. Devo quindi dedurre che l'essere a capo di un progetto come Call of Duty comporti pressioni solo di natura creativa?
Mark Rubin: (ride) No, stavo scherzando, in realtà ci sono pressioni di tutti i tipi. Tutti pensano che fare un gioco come un Call of Duty sia facile, in realtà non lo è affatto perché accontentare una tale base di utenti è difficilissimo. E c'è sempre il confronto coi successi del passato a rendere il tutto ancora più complesso. Al punto che sarebbe molto più facile per noi trasformare il brand in qualcosa di diverso, che so... in uno strategico, piuttosto che reinventare ogni volta la ruota.
Eurogamer: E quindi, a conclusione di un progetto della portata di Call of Duty: Ghost, quale credi sarà il tuo sentimento: di frustrazione per non essere riuscito a inserire tutte le idee che avevi in mente o di sollievo per esserti tolto un peso?
Mark Rubin: Non ti togli mai un peso lavorando a Call of Duty. Da un lato perché devi portare avanti lo sviluppo del gioco attraverso le patch e le espansioni, dall'altro perché devi pensare subito al capitolo che farai uscire due anni dopo. E poi, ma questo te lo dirà ogni sviluppatore, il problema non sono tanto le cose che avresti voluto mettere quanto quelle che hai messo e che avresti voluto fare meglio. Perché alla fine i critici più feroci del nostro operato siamo noi stessi.