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Videogiochi violenti, fra leggende e realtà - editoriale

Il nostro amato medium è più violento di quanto non si ammetta. Ma riconoscerlo gli farà bene.

Per quanto non sia passato molto tempo, ne sono successe di cose videoludiche di cui scrivere dall'ultima mia sortita da queste parti.

Giusto per fare esempi, potremmo dedicare qualche battuta alla "rivelazione Xbox", una dichiarazione d'intenti piuttosto esplicita da parte dei pezzi grossi di Redmond -quasi a dire che il futuro delle console non sarà il videogioco e quello del videogioco non sarà su console-, che tuttavia potrebbe cambiare senso alla luce di quanto succederà nei prossimi giorni californiani. Quando, dopo la presentazione della macchina o, se preferite, del "sistema d'intrattenimento integrato", chi ha accusato Microsoft di aver trascurato i giocatori avrà di che ricredersi.

Potremmo altrimenti dilungarci su un confronto fra i protagonisti della next-gen e imbastire una bella sfida fra Xbox One, PS4 e la misteriosa console di Valve, ché va tanto di moda. Oppure concentrarci sull'annata di commiato di Ps3/Sony a base di Beyond: Two Souls - pur sempre il primo videogioco a essere invitato a un festival cinematografico come il Tribeca - e The Last of Us, che nella sua anteprima milanese ha dimostrato di essere un titolo cui i tizi di Naughty Dog hanno dedicato amore e passione per tre anni. E si sa quanto quelli siano precisi sulle loro cose.

Joe Biden: il vicepresidente americano non esclude una tassazione extra per i videogiochi violenti.

Infine potremmo dedicarci all'idea del vicepresidente Usa, Joe Biden, di iper-tassare i videogame violenti, o ai massacri veri ispirati agli universi finti, oppure, ancora, a chi, di quegli universi si appresta a fissare il nuovo paradigma (leggasi GTA V, forse il gioco più atteso degli ultimi anni, non solo dei 12 mesi più recenti).

"L'ampio numero di studi dedicati all'argomento non dimostra alcuna relazione diretta fra la brutalità e la fruizione dei videogiochi"

Ecco, queste ultime ipotesi si avvicinerebbero ma senza centrare il fulcro delle prossime righe. Via dal po' po' di roba fin qui elencato, questa volta si devierà l'attenzione su un tema scottante. Anzi, sul tema scottante par excellence: la violenza dei e nei videogiochi.

Senza avanzare alcuna pretesa di esaustività, si tenterà di approcciare l'argomento da un punto di vista ispirato dall'accesa diatriba generata da questo intervento precedente. Se in quel contesto scrivere di violenza fu accidentale - la questione era un'altra -, qui sotto si vedrà di fare più chiarezza.

Subito una premessa: scrivere su queste pagine di come la violenza nei videogiochi sia uno spauracchio usato a mo' di capro espiatorio sociale, sarebbe come celebrare Silvio Berlusconi dalle colonne del "Giornale" o, sempre da là, dare della poco di buono a Ilda Bocassini: la riflessione sarebbe scontata e sfonderebbe porte già spalancate, con scarso stimolo e ancor meno soddisfazione per tutti.

D'altro canto, ribadire come l'ampio numero di studi dedicati all'argomento non dimostri alcuna relazione diretta fra la brutalità e la fruizione dei videogiochi, ci pare cosa doverosa. Da ripetere spesso e volentieri, ad amici e parenti tutti. Alla faccia dei giornalacci che da noi urlano allo scandalo giusto per imbrattare qualche pagina e senza nemmeno avere una Rifle National Association - o un Joe Biden - a giustificarne la parzialità prona.

Hotline Miami: un po' di sana ultraviolenza anche nella produzione indie.

No, quello che si intende fare nelle prossime righe è diverso. Apparentemente opposto. Ciò che si scriverà qui punterà a dimostrare come spesso e forse volentieri i nostri beneamati videogiochini siano davvero colmi di una violenza greve e ingiustificata. Di una ferocia sotto traccia, ideologicamente più pericolosa perché quasi invisibile. Un'insensatezza ferale di quelle capaci di infiammare gli scettici e armare i detrattori. Hai voglia poi a stupirti delle reazioni.

"Il videogioco è una cosa seria da approcciare con strumenti critici adeguati"

Tuttavia, nel sostenere questa tesi a tradimento, si spera di trattare il videogioco per quel che è: un artefatto culturale complesso, portatore di valori, idee e ideologie radicate in un contesto socio-culturale preciso. Una cosa seria da approcciare con strumenti critici adeguati. Sì da permettere, dell'universo ludico, una visione vieppiù matura, con la certezza che un pubblico intelligente contribuisca a una produzione all'altezza. In fondo i due fenomeni sono legati, come qualche anno fa sosteneva pure Steven Johnson nel suo Tutto quello che fa male ti fa bene (Mondadori, 2006).

Per iniziare la disamina, ci si avvarrà di un concetto che ha fatto gridare allo scandalo nello scritto evocato poc'anzi e che, a dire il vero, si è ereditato da un libro ottimo, Voglia di vincere, tradotto in Italia dai tipi di Isbn. Nel volume, durante una serie di interviste a personaggi come Jonathan Blow o Cliff Bleszinski, l'autore, Tom Bissell, individua un paradigma critico che ci pare uno dei più originali, semplici ed efficaci fra quelli pensati per valutare il gioco elettronico: la coerenza ludo-narrativa.

Se un videogioco, sostengono Bissel e i suoi amici, è anzitutto medium procedurale, caratterizzato da dinamiche di interazione e feedback in tempo reale, da regole e da un contesto, allora è nella corrispondenza fra le meccaniche ludiche e il senso narrativo che vanno rintracciati il suo valore e la sua qualità. Ed è attraverso questa lente che è più indicativo valutarne i sottotesti ideologici, soprattutto quando più o meno scientemente nascosti. Il che ricorda come ogni videogioco, pure se scandaloso tipo Boston Marathon: Terror on the Streets, sia veicolo culturale e valoriale.

Operation Flashpoint: Codemasters crea un modello culturale della guerra in controtendenza rispetto al mainstream.

Per dirla semplice, se il tuo videogame è una simulazione bellica, che le sue meccaniche costruiscano un mondo di bersagli senza alcuna possibilità di trattativa o compromesso è di una coerenza ludo-narrativa inattaccabile. La storia di un marine cazzutissimo che, sotto forma di un fucile sempre eretto a centro schermo con rispettivo mirino puntato su nemici indistinti nella loro funzionalità ricettiva (ogni allusione sessuale, anzi, ogni riduzione pornografica è voluta), ebbene, la storia di un eroe solitario e devastatore che il giocatore manovra con perfetta coordinazione per farne un assassino dalla furia cieca, svela una coerenza rara. Per quanto ritrita, è un'univocità semantica inattaccabile (forse per questo ripetuta alla nausea da anni).

"Se il tuo videogame è una simulazione bellica, che le sue meccaniche costruiscano un mondo di bersagli senza alcuna possibilità di trattativa è di una coerenza inattaccabile"

Che poi quella coerenza traduca un'ideologia precisa, occidentale, di tipo imperialistico-militare e basata su una visione economica tardo-capitalistica, è altrettanto vero. E discutibile a più livelli. Solo occorre notarlo insieme con le procedure sottostanti, per vedere quanto Soldier of Fortune, Counter Strike o America's Army siano titoli propagandistici esattamente quanto il siriano Under Ash, ma con una piccola, sostanziale, differenza: che in quest'ultimo uccidere i civili fa perdere punti. Nei bravi giochi americani, qualche innocente straniero in meno contribuisce comunque a rimpinguare il punteggio. Ma si sa, lo zio Sam non bada a quisquilie.

Di segno simile è una coerenza ludo-narrativa non rispettata. Un gioco che voglia criticare i cliché di uno shooter, magari farcendosi di temi pacifisti o rivoluzionari, ma che si basi su dinamiche tipiche di un FPS, produce un corto circuito percettivo che annulla qualsiasi trovata drammatica a favore di quello che un giocatore è chiamato a fare.

Come già scritto da queste parti, per quanto il buon Hideo Kojima - o chi per lui - si prodighi nel ricordarci che Metal Gear Rising: Revengeance è una riflessione sulle bestialità belliche, il fatto che per tutto il gioco si debbano squartare i nemici rende il messaggio inefficace, poco percepito e, in fondo, patetico. Accade che la verità "politica" veicolata sia di segno opposto: il nemico va fatto a brandelli. Meglio se numerosi, ché fa bene al record. Detto altrimenti, immaginatevi una sequenza di cumshot contro le brutture della pornografia: qualora non si trattasse della cura Ludovico di Arancia meccanica, fidatevi, non funzionerebbe. E pure l'efficacia di quella pareva un po' in dubbio, a dar retta a Burgess e Kubrick.

Deus Ex Human Revolutione: Square Enix premia l'approccio stealth e senza vittime.

Ecco perché pur simili in senso tematico e narrativo, Metal Gear Rising: Revengeance sfoggia una violenza ingiustificata, mentre Deus Ex: Human Revolution - che rende l'approccio stealth e senza vittime più difficile da attuare, ma più soddisfacente anche in termini di bonus - fa corrispondere forma e sostanza. Il che, dal punto di vista percettivo, è tutta un'altra storia.

La differenza è ancora più marcata fra serie come CoD, Battlefield e la meno fortunata Operation Flashpoint: la verosimiglianza simulativa di quest'ultimo titolo trasfigura in pixel l'addestramento militare, ma a un tempo fornisce della battaglia un modello culturale in controtendenza rispetto a quello dominante, tutto adrenalina e nerborute azioni à la Rambo. In Operation Flashpoint, la guerra è più vicina a quel che crediamo sia davvero: un'esperienza alienante, noiosa, terribile nelle sue attese infinite, logorante per la pervasiva minaccia della fine. Un epilogo che può peraltro manifestarsi in tutta la sua banalità (un cecchino che ti spara un colpo in testa dopo un tuo appostamento di 20 minuti su una collina). Altro che emozioni hollywoodiane.

"Il pur profondo Bioshock: Infinite non riesce mai, se non nel finale, a dissimulare la propria essenza: un FPS convenzionale"

Pur tematicamente identici, CoD, Battlefield e Operation Flashpoint agiscono in maniera opposta sulle percezioni del giocatore. Questione di coerenza ludo narrativa e valori annessi.

Qualche altro esempio?

Il pur profondo Bioshock: Infinite non riesce mai, se non nel finale, a dissimulare la propria essenza: un FPS convenzionale, con pro e contro del caso. Sgozzare gente di spalle, in diverse occasioni senza nemmeno avere soluzioni alternative, è un modo curioso per criticare utopie di stampo totalitaristico.

GTA: ma quale violenza?! Solo libero arbitrio.

I titoli sportivi più blasonati, simulazioni digitali prodigiose per la verosimiglianza fisica e il foto realismo, cambiano di senso quando l'abilità del giocatore viene inquinata da dinamiche freemiun (sull'argomento ci eravamo dilungati qui). In quel momento viene meno la corrispondenza fra la performance richiesta a un atleta reale e quella necessaria al suo omologo in pixel - la coerenza tipica dei giochi sportivi classici -, e bilanciare le proprie debolezze con congrui investimenti in denaro diventa non solo lecito, ma suggerito agli utenti meno esperti o dotati. Non sarà violenza ma l'ideologia implicita al meccanismo è chiara. Diseducativa e spaventosa.

Altro che Grand Theft Auto. In fondo la saga Rockstar, al netto delle provocazioni esplicite e più o meno paracule, insegue da anni la chimera di un mondo digitale in cui il libero arbitrio sia sempre possibile. A ben guardare parrebbe addirittura questo il filo rosso di quasi tutta la produzione griffata dai fratelli Houser. Si pensi a Red Dead Redemption o L.A. Noire.

Come ogni lettore della Bibbia o dell'Uomo Ragno sa bene, il libero arbitrio cristallizza un potere immenso. E al potere conseguono sempre responsabilità. Il che indica che lungi dall'essere la manifestazione elettronica di una cultura egemonica e violenta, le meccaniche ludiche degli open world di Rockstar puntano altrove, lasciando che siano carattere e identità (proiettiva) del giocatore a manifestarsi secondo suo gusto ed etica. Che poi giochino pure i Ted Bundy o i Jack lo Squartatore di mezzo mondo è tutt'altro discorso. E sono tutt'altre responsabilità.

Perché nei videogiochi sono le dinamiche - i modi - a fare la differenza. Ben più di quanto racconti e storie vogliano farci credere.

E ora scusate, scappo; devo finire il livello di un FPS in cui un Paese buono esporta la democrazia in uno cattivo.

Emilio Cozzi è vicedirettore di Zero, dal 1996 la guida agli eventi di intrattenimento e cultura nelle principali città italiane. Dalla carta all'online e sempre gratis, il network risponde alle più antiche questioni dell'Umanità: chi siamo? Dove andiamo? Quanto costa?.

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Emilio Cozzi: Nasce 45 anni fa durante una partita della Nazionale, che distrae i medici. Da allora non ama particolarmente il calcio, ma si occupa di cultura, intrattenimento e scienza. Scrive di videogiochi e cultura videoludica su Il Sole 24 Ore, Wired e Il Corriere della Sera. Dirige la sezione space economy di Forbes Italia e Cosmo. Lo trovate ancora lontano dai campi di calcio. O su Twitter come @Addioegrazieper

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